In Emilia Romagna ci sono 1.302 malati di aids, di cui 325 nella provincia di Bologna. Nel 2001 sono stati rilevati 141 nuovi casi in Regione di cui 22 nel bolognese. Con questi numeri la regione Emilia Romagna si classifica terza in Italia rispetto ai tassi di incidenza su 100 mila abitanti. Ne Parliamo con Diego Scudiero, Presidente della LILA Bologna.L’aids è una malattia “giovane”, nel senso che nella fascia di età tra i 25 e i 44 anni è la quarta cuasa di morte per le femmine e la quinta per i maschi. Dal 1984, anno in cui è stato diagnosticato il primo caso di aids, in regione sono morte 3.445 persone, di cui 1.018 a Bologna. Circa il 27% delle persone cui è stata diagnosticata la malattia, è ancora in vita. Tra il 1999 e il 2000 sono morti 154 malati di aids nella fascia tra i 25 e i 44 anni. Un problema piccolo, marginale, ormai risolto? L’impressione generale è quella che la malattia sia stata arginata. Perché le aspettative di vita si allungano (con le attuali terapie un malato può vivere fino a dieci anni dopo che gli è stata diagnosticata la malattia), il tasso di mortalità si abbassa spostando l’aids verso la categoria delle malattie croniche e le segnalazioni di nuovi casi calano. Almeno fino a qualche anno fa: la flessione più consistente si è registrata dal 1996 al 1999. Adesso le associazioni e le istituzioni che si occupano di aids parlano di “stabilizzazione” e dall’Istituto Superiore di Sanità arriva il monito “è necessario non abbassare la guardia e rafforzare, a livello nazionale, i sistemi di sorveglianza delle nuove diagnosi di infezione da Hiv”. Bisogna tenere alta la guardia per contrastare l’inesorabile avanzata della “peste del secolo”, ma i reparti di ospedale dove venivano ricoverati i malati di aids chiudono. È di questa estate la chiusura del reparto malattie infettive dell’ospedale Maggiore di Bologna, dove è rimasto un servizio di day hospital. Il personale medico è stato concentrato nel reparto malattie infettive dell’ospedale S.Orsola, al quale sono stati aggiunti dieci posti letto. La clinica universitaria rimane in città l’unico luogo dove i malati con crisi acute possono essere assistiti, per il resto ci si concentra sull’assistenza domiciliare. “Si è valutato che l’utenza che aveva bisogno di un ricovero poteva essere contenuta in un ospedale solo” ci ha spiegato la dottoressa Emanuela Dall’Olmi, della direzione sanitaria di Bologna città, “e per ora abbiamo riscontri positivi”. La parola d’ordine è razionalizzare, togliere letti dove questi non servono più e da due anni il numero dei ricoveri era in calo. Ma nelle fonti ufficiali si invita alla prudenza: ancora non si conoscono con esattezza gli effetti e la durata dei nuovi farmaci che aiutano i malati di aids. “Di fronte a sviluppi ulteriori della malattia, che per ora non sono prevedibili, c’è sempre la flessibilità di accogliere questi malati negli altri reparti dell’ospedale” ha continuato Dall’Olmi “come già succede negli ospedali in provincia”. Le associazioni che si occupano di malati di aids, con la Lila in prima fila, lanciano però l’allarme: non solo l’aids non è stato fermato, ma abbassare la guardia nella prevenzione potrebbe essere un errore fatale: la malattia ha cambiato faccia e questa situazione di “stabilità” potrebbe essere solo apparenza.
Non è più la piaga di tossici e gay, ora colpisce le persone “normali” Siamo entrati in una fase di diffusione generalizzata del virus, e se la strategia della prevenzione ha funzionato per tossicodipendenti e omosessuali, categorie un tempo considerate più esposte al rischio, adesso le persone più in pericolo sono quelle con una vita “normale”: i contatti eterosessuali, anche all’interno del rapporto coniugale, sono il principale veicolo di infezione. Le persone che hanno contratto il virus in questo modo non si sentono a rischio e scoprono in ritardo la malattia. Così per l’aids potrebbe trattarsi di una quiete prima della tempesta. “In generale sull’aids c’è l’errata percezione che il problema sia risolto e sotto controllo. Niente di più sbagliato”, dice Diego Scudiero, presidente bolognese della Lila, che delinea una situazione nuova rispetto alla tradizionale immagine dell’aids che film, televisione e mass media in genere ci hanno abituato a conoscere. “In realtà c’è una crescita costante della malattia in questi anni e il virus si diffonde sempre di più tra le persone normali”. Le statistiche sembrano archiviare del tutto l’idea di aids come malattia dei drogati e degli omosessuali. Adesso il contatto più a rischio è quello eterosessuale che nella nostra regione copre ben il 60% dei casi di contagio, mentre negli anni 90% si aggirava attorno al 20-25%. Tanto per dare l’idea, nel 2001 i nuovi casi di aids dovuti a contatto eterosessuale sono stati 57, mentre quelli legati alla tossicodipendenza 24. Nel 1994 tra i nuovi casi di aids, quelli dovuti a scambio di siringhe usate erano 329 mentre quelli dovuti a contatti eterosessuali 85. Adesso il virus si diffonde tra le persone “normali”, in particolare tra le donne e i giovani, che non si sentono a rischio e quindi scoprono molto in ritardo la malattia. In Emilia Romagna il 42,5% delle persone si scopre malato di aids senza essere venuto prima a conoscenza della propria sieropositività e la percentuale sale al 63,6% nelle persone che riportano come modalità di trasmissione quella sessuale. “Questo testimonia” secondo il rapporto dell’osservatorio regionale sullo stato dell’infezione “che non è ancora stato introiettato il concetto del rischio per tutti e non solo per i gruppi un tempo ritenuti a rischio”. Le persone che hanno scoperto la malattia nell’ultimo anno, nel 40% dei casi non si sentivano in pericolo. E la prevenzione capillare è molto più complicata. Perché se quello di non usare siringhe usate è un messaggio semplice e diretto, se è stata efficace la prevenzione rivolta ad un gruppo di persone specifico, come gli omosessuali, che riconoscono di avere un’identità comune, molto meno semplice è insegnare alle persone, a tutte le persone, a proteggersi sempre. “Il piano delle prevenzione andrebbe ridefinito rispetto all’andamento modificato dell’epidemia” commenta Scudiero. Ma in un momento in cui c’è un consistente calo del tasso di mortalità, creare nuove campagne di prevenzione è paradossalmente più complicato di quando il numero dei morti e la rapidità della degenerazione della malattia attirava l’attenzione di tutti e ogni giorno al cinema, in televisione e sui giornali si parlava di “peste del secolo”, epidemia del 2000.
Da malattia fulminante a problema sociale Oggi il problema è l’indifferenza. Come ripensare un piano per la prevenzione e come tenere sveglia l’attenzione del pubblico, e dei media, su i problemi di coloro che oggi sono malati? Problemi più complessi e sottili di quelli puramente clinici, troppo “privati” per impressionare l’opinione pubblica: la solitudine, l’isolamento, l’abbandono, la perdita del lavoro, il declino lento e inesorabile. “Il dramma oggi per questi malati” ci racconta Michela Battistini, una giovane studentessa di medicina che fa volontariato assistendo malati di aids presso l’associazione Asa 65 di Cesena, “è la vita di tutti i giorni, l’isolamento e la consapevolezza del declino. I malati si portano dietro un senso di colpa e di emarginazione sociale inestirpabile e i loro bisogni sono molto cambiati. Basti pensare che una volta l’assistenza ad un malato di aids durava in media un mese. Adesso hanno più tempo, il problema è riempirlo bene: poter lavorare, vivere, avere una vita normale, un’attività sessuale”. “Non si tratta più di un problema clinico: oggi la questione assume più caratteristiche socio-sanitarie” conferma Scudiero. La riduzione della mortalità, le terapie che diventano sempre meno invasive e che si possono eseguire a casa propria senza dipendere dal reparto dell’ospedale, da una parte migliorano la vita dei pazienti ma dall’altra fanno diminuire l’attenzione sul problema e anche le prestazioni sanitarie. I malati di aids dei giorni nostri vivono di più, ma la qualità della loro vita è un problema che non trova un referente preciso. “Una volta che una persona può curarsi da casa con le pillole, gli effetti collaterali diventano un problema suo. Ad esempio uno degli effetti più invalidanti è quello deformante di redistribuzione del grasso sulla superficie corporea. Ci sono persone che si ritrovano con così dette “gobbe di bufalo”, non si piacciono e non esiste struttura per aiutarle ad accettarsi. Oppure ci sono effetti collaterali che possono impedirti di lavorare. Mi ricordo il caso di una cassiera che non riusciva più a lavorare regolarmente perché le sue medicine avevano come effetto collaterale la diarrea. Non è cosa da poco, ma sembra che non ci sia nessuno pronto a farsi carico di queste nuove problematiche che hanno sfumature ben più complesse”. Quando un malato di aids scopre che può tornare a vivere, che ha ancora del tempo davanti a sé, si fa strada la così detta sindrome di Lazzaro, l’ansia di ridefinire il proprio futuro. “La richiesta è quella di corsi di formazione” continua il presidente della Lila, “da parte di quelle persone che hanno storie pesanti alle spalle, e non hanno mai avuto un lavoro neanche prima di scoprire la malattia e da parte delle persone che hanno una storia meno drammatica, quella di essere tutelati per non perdere il loro impiego”. Servirebbe sul territorio bolognese, secondo Scudiero, un servizio socio-sanitario integrato, mentre ancora forti sono le divisioni tra sociale e sanitario. Esiste naturalmente un’assistenza domiciliare da parte dell’Usl, che aiuta i malati a portare avanti le terapie, ma non esiste una rete di aiuti che si occupi dell’ “ego-sintonia”, del modo per accettare le limitazioni che comunque la malattia ti pone. Una di queste limitazioni è quella della sessualità, che adesso i malati di aids rivendicano come diritto. Ma perché i malati possano condurre una vita serena, senza segregazioni e limitazioni inaccettabili, il primo passo indispensabile sarebbe quello di alzare il livello di prevenzione di tutti gli altri. I volontari della Lila, che tengono in piedi un’associazione che riceve 500 contatti all’anno, dicono che di donazioni ne arrivano sempre meno. “Non si può lavorare solo in situazioni di emergenza, ma per evitare che l’emergenza si presenti” dicono “occorrono investimenti, fondi, una mobilitazione e una presa di coscienza generale”. Cose difficili da ottenere una volta che il pericolo sembra passato.