La nuova legge Fini sulle droghe rimanda al male ricorrente della politica italiana, il proibizionismo. In versione ancor peggiore di quelle precedenti. di Guido Blumir
Oggi è ancora possibile incontrare e intervistare persone viventi che sono state in prigione due anni per un grammo di hascisc. In Italia, non in Turchia. Sembra fantascienza: ma è esattamente quello che succedeva a Roma, a Milano, in tutto il paese, solo una trentina di anni fa: dal l966 al l975. Migliaia di condanne a due anni per piccolissime quantità di droghe leggere detenute per uso personale. Due anni di galera: 728 giorni tutti da scontare. Tutto questa accadeva nella democratica Italia prima degli anni di piombo: dunque prima delle leggi speciali. Cinque anni di battaglie di opinione, dal `70 al `75, dai radicali a tanti gruppi di «controinformazione», riuscirono a portare lo «scandalo» in parlamento. Senatori e deputati studiarono un sistema per capire come uscire dalla logica di polizia e galera. Il consumo, il consumatore, non dovevano più essere puniti. Autorevoli magistrati e avvocati dell’epoca mettevano però sull’avviso: non bisogna che se ne approfittino spacciatori e trafficanti. Invece di ispirare le leggi ai fatti: se uno consuma non è punibile, se uno vende è punibile, i parlamentari infilarono nella legge una «presunzione di colpevolezza». Se uno ha in tasca più di tot, presumiamo che abbia cattive intenzioni, e cioè voglia vendere. Qual è il limite? Non viene indicato. Si parla di «modica quantità». Chi detiene droghe proibite in modiche quantità non è punibile. Non è punibile con nulla, nemmeno con una nota scritta di rimprovero. Un concetto limpido, su cui la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica sembra d’accordo, che il consumo personale non dev’essere più penalizzato, viene inquinato da un brutto spiraglio di sospetto: sopra le «modiche quantità», sono anni in cella. Sarà il giudice a decidere, caso per caso. E per un giudice con una mentalità arretrata, magari dieci grammi di marijuana sono una quantità eccessiva, dunque giù condanne. Per come andavano le cose all’epoca, polizia e carabinieri, che non avevano proprio un feeling di amore e simpatia per le nuove generazioni, per qualche anno fermavano e arrestavano allegramente decine di migliaia di giovani con lo spinello. Poi,magari dopo un po’ di carcere, intervenivano i magistrati che sentenziavano un non luogo a procedere. Naturalmente, se i verbali di polizia erano maliziosi , «da fonte riservata e attendibile, sappiamo che il tale è dedito allo spaccio di sostanze stupefacenti» e la quantità detenuta non era proprio microscopica, il fermato passava guai su guai. Col passare degli anni, il cambiamento di mentalità, e l’aumento di fumatori anche tra polizia e carabinieri, si arriva a una situazione in cui sono le stesse questure a essere meno feroci e più rispettose dello spirito della legge. E anche più consapevoli del fatto che con il proibizionismo si perde solo tempo e denaro, si causa sofferenza e non si risolve nulla. Un aspetto fondamentale del problema droga è che di fronte al fallimento, sotto gli occhi di tutti, del proibizionismo (di fatto, ovunque aumentano consumo e traffico), il proibizionista (in buona o malafede) è tormentato da un rovello: le cose non funzionano perché il fatto non è abbastanza proibito. Dunque, bisogna proibire di più e lavorare di più. A questo più non c’è mai limite. Così negli anni `80, il presidente degli Stati uniti Ronald Reagan lanciò la «tolleranza zero»: anni di prigione a tutti, consumatori compresi. Nell’ottobre `88, Bettino Craxi sposò questa tesi di fondo e incaricò i giuristi del suo partito, come il ministro della giustizia Giuliano Vassalli, di trovare una soluzione. Il consumatore doveva essere sempre punito. La «modica quantità» grazie a cui migliaia di persone avevano evitato la galera, diventava il male assoluto. Doveva essere eliminata. Ma cancellandola, come nel testo originale del ministero, scattava automaticamente la prigione. Un anno e mezzo di battaglie parlamentari costrinse i senatori socialisti ad attenuare questo rigore iniziale. Che centinaia di migliaia di persone potessero finire in prigione per uno spinello sembrava una cosa mostruosa all’opinione pubblica anche moderata, ai laici come ai cattolici. Così, nelle commissioni riunite sanità e giustizia, dopo decine di audizioni, il senatore Giorgio Casoli inventò una scappatoia «umanitaria». Finire in cella per una canna è disumano. Dunque, stabiliamo una micro-quantità sotto cui non c’è il carcere. Qualcosa ci sarà, perché Bettino vuole che ci sia, e dunque sanzioni amministrative. Ma non la galera. Si definì la soglia: la dose di un giorno. La «dose media giornaliera». Il confine tra la vita e la morte (civile), tra la libertà e la galera, diventa una formuletta da farmacisti. Al di sopra, la cella, al di sotto le micro-sanzioni. Per gli spinelli, il ministro della Sanità dell’epoca, Francesco De Lorenzo, fissa la dose in mezzo grammo. Poco dopo l’approvazione della legge, i radicali promuovono la raccolta di firme per un referendum. Il consumo è qualcosa che assolutamente non può essere punito con il carcere. Dunque, deve saltare la dose media giornaliera. Restano le microsanzioni. Il timore è che, chiedendo l’abolizione delle sanzioni, la Corte costituzionale blocchi la richiesta. Timore giustificatissimo, date le decisioni precedenti. Nel l993, il referendum vince alla grande: il 55,3 per cento degli italiani dice sì all’abrogazione. Quasi undici punti di distacco sui conservatori, che restano fermi al 44,7%. Restano le sanzioni amministrative (ritiro della patente o del passaporto). Quando la questione verrà studiata in modo più approfondito, si scoprirà che anche queste micro-pene sono contro i principi della nostra civiltà giuridica. Come ha dimostrato uno dei massimi esperti del problema, Angelo Averni, nel suo fondamentale «Proibizionismo e antiproibizionismo» (Castelvecchi editore, Roma 1999), mettendo a confronto tutti i nostri maggiori costituzionalisti, da Barile a Baldassarre: il consumatore non può essere mai punito, con nessun tipo di pena, perché ciò è contro la Costituzione. La salute è un diritto, non un dovere. Bettino Craxi ha fatto saltare la modica quantità. Il referendum ha fatto saltare la dose media giornaliera. Il consumo non è più punibile (con la prigione): la cosa non dipende più dalla quantità che uno può avere in tasca o a casa. Dipende dai fatti. La sostanza è per lui, non fa parte di un lavorio di traffico e vendita. Il referendum ha ripulito la logica del sospetto che faceva parte della vecchia legge sulla modica quamtità. Anche se la quantità non è piccola, non c’è il carcere. E’ un principio limpidissimo e importante. Andrebbe inserito nelle convenzioni Onu. Nessuno stato può prevedere il carcere per il consumo di alcool, droghe o qualunque altra sostanza. Una questione fondamentale, di civiltà. A Gianfranco Fini questa fondamentale civiltà giuridica non va giù. Gli sembra una «libertà di drogarsi». Non è così. E’ lo stato che non ha la libertà, il diritto di entrare nelle case delle persone con la polizia arrestando i soggetti per comportamenti che riguardano solo loro. Secondo il leader di Alleanza nazionale, con la situazione attuale milioni di persone fumano marijuana con delle pene troppo blande. Il ritiro di patente e/o passaporto per qualche mese, non è una cosa seria. Milioni di giovani possono avere la sensazione che non ci sia il proibizionismo. Invece, questo ci deve essere, e in modo consistente. Un proibizionismo hard, non soft. In aggiunta, un argomento debolissimo: così come vanno le cose, è difficile pizzicare gli spacciatori. Non sta in piedi: oggi, più di vent’anni fa, con telecamere, microtelecamere, raggi infrarossi etc., è facilissimo per la polizia capire chi vende e chi compra, e quindi acquisire prove schiaccianti. Fini e il suo tecnico, il sottosegretario agli interni Alfredo Mantovano, hanno una soluzione semplicissima sulla scrivania. Ripescare la famigerata dose media giornaliera abolita dagli italiani. Ci pensano da anni. Ma forse, in questi due anni di nuova legislatura, si sono resi conto che la cosa non sarebbe molto presentabile. Avrebbero una strada: studiare un referendum che riporti la situazione a dieci anni fa. Se pensano che l’opinione pubblica nel frattempo ha cambiato idea, potrebbero vincerlo. Una via democratica al nuovo proibizionismo. Ineccepibile. Ma la tentazione è un’altra: essendo al governo, farcela per via parlamentare. Dunque, conviene anche indorare la pillola, mettere al lavoro la fantasia per trovare nuove formule che che non appaiano una semplice replica della dose media giornaliera. «Chiamatela Antonio», ha detto Fini a Vienna. E dunque, «dose minima detenibile», «dose massima tollerabile». Sopra la quale c’è il carcere; e sotto, le microsanzioni. Le sostanze probite sono migliaia. Solo l’ecstasy, centinaia. Per tutte e per ciascuna, si tratta di stabilire una «quantità». E per la marijuana e l’hascisc? Il mezzo grammo di De Lorenzo era criminale. Anche se comunque il ministro era legato al fatto della dose di un giorno. Undici stati americani hanno risolto pragmaticamente il problema fissando la quantità «permessa» (niente carcere, solo una multa) in un’oncia, pari a 28 grammi. Una quantità che forse fa strabuzzare gli occhi a Fini e Mantovano. Ma devono sapere che non hanno scelta: o stabiliscono una quantità ragionevole, che tenga realmente lontano dalle galere i quattro milioni di fumatori italiani, o fissano una quantità troppo bassa, che costringerà i trecentomila poliziotti e carabinieri italiani a non fare nient’altro: per far rispettare la nuova legge, dovranno andare a pescare tutti quei milioni di persone che a casa loro o in macchina o in tasca hanno sicuramente una «dose» di «Antonio» superiore a quella consentita.