Il contagio è a raffica. Ma nessuno capisce come avvenga. Risultato: la polmonite che arriva dall’est scatena l’allarme planetario.Chissà che faccia ha il mostro del Guangdong? L’agente infettivo, responsabile della polmonite atipica che sta seminando il panico in tutto il mondo, è spuntato dagli specchi d’acqua che affacciano sul Mar cinese meridionale, a pochi chilometri da Hong Kong, e si è fatto strada. Attraverso la maggiore popolazione di anatre del mondo, gli allevamenti di maiali di quell’immensa regione, poi le vie brulicanti della metropoli che da un paio di secoli è la porta della Cina. Una porta da cui, questa volta, è passato un mostro silenzioso e furbo, che si comporta stranamente: è letale per alcuni organismi e rapidamente eliminabile in altri; non si trasmette per via aerea (ovvero stando nella stessa stanza con qualcuno) ma viaggia veloce anche tra persone che non hanno avuto contatti ravvicinati. Le autorità sanitarie cercano di rincuorare la popolazione: all’Oms dicono che l’epidemia rallenta, ma contano ogni giorno nuovi morti; al ministero della Salute italiano affermano che non c’è pericolo, ma mettono in allarme aeroporti e stazioni marittime. Il mistero è ancora fitto sull’identità del mostro che beffa le teste d’uovo della virologia mondiale da tre settimane sulle sue tracce. Tracce che portano, appunto, nella regione del Guangdong dove, all’insaputa di tutti, l’epidemia cresce dal novembre scorso nascosta dalle autorità cinesi, ad Hong Kong. E, in particolare ad un albergo, il Metropol, 20 piani a cinque stelle sulla Waterloo Road a Kowloon dove, al ristorante, si servono piatti tipici del Guangdong. Chissà se è stata la cucina della sua regione ad attirare al Metropol il 21 febbraio scorso un medico di 64 anni che nei mesi precedenti aveva trattato 600 casi di polmonite atipica al di là del confine. È lui il paziente zero, come gli epidemiologi chiamano il sospettato di aver portato una malattia fuori dalla regione di origine, magari remota e poco collegata, sulle strade della globalizzazione. Perché le epidemie non nascono dal nulla, non si fabbricano in laboratorio, e i Centers for disease control americani anche in questo caso hanno escluso in maniera inequivocabile che l’agente infettivo responsabile della Sars sia uscito da un laboratorio. È uscito dalle aree lacustri del Guangdong, come sempre hanno fatto le pandemie di influenza. Le influenze che puntualmente conosciamo ogni inverno sono causate da virus mutati, non molto dissimili da altri che hanno colpito nelle stagioni precedenti: i virologi riescono rapidamente a riconoscerle e a risolverle. Non è così, invece, per le grandi pandemie (come quella del 1918-19 e altre che hanno colpito con una cadenza più che decennale). E venivano tutte dal Guangdong. Perché? Robert Webster, uno dei più autorevoli virologi del mondo, è giunto a una conclusione: le grandi pandemie sono causate non da un semplice virus mutato, ma da un animale tutto nuovo generato dalla fusione del materiale genetico di due virus; le anatre che vivono a milioni nelle aree umide della Cina meridionale sono il contenitore biologico in cui avviene questa fusione. Ma perché il nuovo agente possa infettare gli umani è necessario che avvenga quello che gli scienziati chiamano il salto di specie. Nella regione del Guangdong non è raro che nello stesso allevamento convivano anatre e maiali, mammiferi e anello di congiunzione tra l’anatra e l’uomo. Il Guangdong è una di quelle aree della terra dove la contiguità tra gli uomini e gli animali permette ai virus di espandersi e conquistare nuove popolazioni (è andata allo stesso modo in Africa con l’Aids). Finché queste aree restavano remote, le epidemie colpivano localmente e le popolazioni sviluppavano anticorpi a questi mostri integrandoli nel corpo umano. Oggi animali e uomini si muovono. E il cosiddetto paziente zero ha pernottato al Metropol il 21 febbraio, si è ammalato il 22 ed è morto il 7 marzo all’ospedale Principe di Galles. Nel frattempo è riuscito ad infettare almeno altre sei o sette persone residenti nell’albergo. Arrivati all’ospedale, gli infetti del Metropol hanno diffuso il virus a chissà quante altre persone. Che a loro volta sono andate all’aeroporto o su un treno o al supermercato. E questo se seseguiamo soltanto il paziente zero (che gli epidemiologi hanno identificato): ma chissà quanti altri cinesi infetti hanno varcato i confini, ed è un’altra ipotesi di lavoro, quanti maiali infetti sono stati esportati verso Hong Kong, Singapore … Così vanno le epidemie. Soprattutto quando il colpevole delle infezioni è una creatura sconosciuta. Come in questo caso. Perché, è qui la dolente nota, nessuno sa ancora cosa sia. I virologi hanno visto che nei tessuti dei malati c’è un germe della famiglia dei coronavirus. Il coronavirus del Guangdong è atipico, come a dire che non se ne sa praticamente nulla, neppure come si trasmette. I funzionari dell’Oms sanno che la partita si gioca qui. E David Heymann, direttore del Dipartimento di malattie infettive dell’organizzazione deve ammettere: «Qualcosa di strano è accaduto a Hong Kong. Sembra che ci sia un qualche fattore ambientale capace di portare questa malattia da un umano all’altro. Non è l’aria. Forse sono le fogne, forse l’acqua. Ma potrebbe essere anche un oggetto, come una maniglia, il pulsante di un ascensore su cui un malato ha lasciato gocce di materiale infetto e che qualcuno ha toccato, portandosi poi le mani alla bocca, agli occhi. Infettandosi». Questa sì che è una novità inquietante. I virus sono creature estremamente semplici: pezzetti di materiale genetico ricoperti da uno strato di proteine. Non sono capaci di riprodursi e per vivere e moltiplicarsi hanno bisogno di essere ospitati da una cellula vivente (questo li rende così difficili da sconfiggere in quanto diventano parte integrante dell’animale che li ospita). Un virus capace di resistere su un oggetto di metallo o di plastica e trasmettersi attraverso di esso è raro. E pericoloso. Ma non è tutto. A volte, nei tessuti dei malati i ricercatori hanno trovato frammenti di un altro agente infettivo, della famiglia dei paramyxovirus. Che fanno i due virus: giocano in coppia? Spiega Klaus Stohr, un clinico al lavoro con l’Oms: «Sono poche le malattie causate da due patogeni. Dobbiamo scoprire cosa fa il paramyxo: una possibilità è che funga da potenziatore della malattia. Un’altra è che sia addirittura indispensabile all’azione distruttiva del coronavirus. Ma è anche possibile che sia lì per caso». L’interazione tra i due virus potrebbe influenzare il decorso della malattia così differente da individuo a individuo. Mark Salter, che guida i clinici dell’Oms al lavoro sulla Sars, spiega che la polmonite atipica finora è stata letale soltanto nel 5 per cento dei casi: «Finora, la malattia si è complicata in presenza di altre patologie, del sistema cardiocircolarorio, del fegato o dei reni». Comunque sia, una serie di terapie che sembrano efficaci i clinici le hanno messe a punto. A Hong Kong hanno trattato i pazienti con gli anticorpi prodotti da altri malati che erano guariti rapidamente. Ma né l’Oms né le autorità sanitarie canadesi e statunitensi mostrano di fidarsi granché. Ad oggi la terapia che sembra funzionare meglio associa un potente antivirale, il Ribavirin, e una dose di steroidi che spengono la reazione violenta del sistema immunitario che produce più danni che benefici, ad esempio causando un’infiammazione dei polmoni. Nonostante, ad oggi, questa sembri l’unica terapia possibile, le autorità sanitarie non la considerano certo la terapia per la Sars: troppo pochi casi felici, e troppi effetti collaterali di questi farmaci cardiotossici e dannosi per il feto. Ma allora, c’è o non c’è una cura? Risponde Klaus Stohr: «Una cura? È presto. Siamo a caccia del virus da una decina di giorni. Dobbiamo identificarlo. Comprendere come si diffonde… Una cura? Ho paura che nessuno abbia ancora avuto il tempo di pensarci».