«Il problema droga non è né inarrestabile né irreversibile»: così si apriva il World Drug Report 2000, pubblicato nel gennaio del 2001 dall’Agenzia antidroga delle Nazioni Unite. Meno di due anni dopo, Arlacchi non è più al vertice dell’Agenzia e insieme a lui sembra essersene andato anche molto dell’ottimismo che traspariva da quel rapporto e che molti dati sembrano contraddire.“Il problema droga non è né inarrestabile né irreversibile”: così si apriva il World Drug Report 2000, pubblicato nel gennaio del 2001 dall’Agenzia antidroga delle Nazioni Unite (l’ODCCP, Office for Drug Control and Crime Prevention). “I dati presentati in questo rapporto”, si leggeva nella lunga introduzione firmata dall’allora direttore Giuseppe Arlacchi, “pongono fine alla rassegnazione e allo sconforto che hanno caratterizzato una generazione”. Pur riconoscendo l’esistenza di “alcune zone d’ombra che impongono vigilanza e intensificazione degli sforzi”, il documento affermava che la guerra alla droga si poteva vincere, anzi, la si stava vincendo. Consumo e traffico erano in calo, grazie alla linea di “tolleranza zero” portata dalla direzione del sociologo italiano.
Meno di due anni dopo, Arlacchi non è più al vertice dell’Agenzia (gli è subentrato da pochi mesi Antonio Maria Costa) e insieme a lui sembra essersene andato anche molto dell’ottimismo che traspariva da quel rapporto e che molti dati sembrano contraddire. Prendiamo, per esempio, il documento annuale 2002 dell’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze (OEDT), una delle fonti di dati più importanti per la stessa agenzia ONU. Quest’anno la lettura del rapporto, presentato lo scorso ottobre, ha un motivo di interesse in più: per la prima volta, oltre ai Paesi membri dell’Unione Europea e alla Norvegia, sono stati oggetto di studio anche i Paesi dell’Europa centrale e orientale candidati a entrare prossimamente nella UE. Il confronto tra le due realtà permette un’analisi epidemiologica particolarmente interessante del fenomeno droghe.
È vero, per esempio, che il consumo di eroina è relativamente stabile se non in diminuzione nei Paesi dell’Europa occidentale. In compenso, è letteralmente esploso in alcuni Paesi dell’Est come Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca. Il rapporto sui Paesi candidati, scrive nell’introduzione il direttore esecutivo dell’osservatorio Georges Estievenart, “mostra un quadro molto diverso da quello che era noto solo cinque o sette anni fa. A quel tempo, questi Paesi erano percepiti soprattutto come aree di transito, con tutti i relativi stereotipi sui “pericoli” derivanti per i cittadini europei. Oggi sono chiaramente diventati importanti centri di consumo di droghe”. A Varsavia, per esempio, come mostra un grafico del rapporto, il numero di utilizzatori di eroina fra i tossicodipendenti che entrano in trattamento è salito dai tre del 1995 ai 1466 del 2000.
Come interpretare questi dati? “Ormai è abbastanza consolidata l’idea che i fenomeni legati al consumo di droghe si sviluppano come delle epidemie”, spiega Carla Rossi, docente dell’Università di Roma “Tor Vergata” e membro del consiglio di amministrazione dell’Osservatorio. “In quasi tutti i Paesi dell’Unione Europea”, spiega la studiosa, “l’uso di eroina è sostanzialmente stabile, mentre la nuova moda sono, oltre alle droghe sintetiche da discoteca di cui tutti parlano, anche la cocaina, di cui si parla meno ma che è in grande aumento ovunque. Al contrario, nei Paesi candidati è al momento in espansione l’eroina. In qualche modo, dunque, questi Paesi arrivano al fenomeno droga con una ventina d’anni di ritardo rispetto all’Occidente, e osservano adesso quello che da noi succedeva circa 15 anni fa”. Del resto, anche noi abbiamo ereditato con un certo ritardo quello che succedeva oltre atlantico: negli USA l’epidemia di eroina, come la chiamano gli studiosi, risale agli anni Settanta mentre da noi è arriva negli anni Ottanta e Novanta. Nell’ultimo decennio dello scorso secolo il fenomeno è iniziato nei Paesi dell’Est: ex Unione Sovietica, ma anche Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria. “Dopo l’eroina”, continua Carla Rossi, “in America sono arrivati cocaina e crack; ora la prima è in espansione in Europa occidentale, mentre per fortuna il crack non sembra avere attecchito molto. In parte è una questione di mode; certe sostanze sono legate ad alcuni tipi di musica, o a determinate usanze giovanili. Ma c’è anche un problema banalmente di mercato: a un certo punto si arriva alla saturazione in un determinato Paese, o in una particolare regione. E una volta che è stata raggiunta la popolazione a rischio – perché non tutti sono propensi a consumare eroina – le organizzazioni criminali tendono a colonizzare nuovi mercati. Quindi si osserva una stagnazione nei luoghi precedenti e una crescita nei posti nuovi. Lo mostra chiaramente anche l’ultimo rapporto dell’ONU, che evidenzia a una diffusione dell’eroina verso Est, anche verso i Paesi asiatici, e una contrazione del suo consumo nei Paesi occidentali, in cui sta rientrando prepotentemente la cocaina. Negli Stati Uniti, invece, recentemente si osserva una contrazione della cocaina e un aumento dell’eroina. Insomma, è un po’ come il morbillo: una volta che tutti i bambini della scuola se lo sono preso per un po’ non lo prende più nessuno ci vuole un certo periodo prima che si ricostituisca il serbatoio di persone a rischio e riparta l’epidemia. I dati dicono che il mercato della droga è governato dall’offerta, più che dalla domanda: a spingere una droga piuttosto che un’altra il cui mercato è ormai saturo sono le organizzazioni criminali, e sono queste a trovare il modo di raggiungere nuovi settori della popolazione quando tutti i soggetti a rischio di un certo tipo sono stati raggiunti”.
Ed è da queste considerazioni che nasce la posizione antiproibizionista evidence based, quella sostenuta da studiosi come Carla Rossi: prevenire la domanda e il consumo non è sufficiente perché le dimensioni del fenomeno droga dipendono principalmente dal fatto che il suo commercio è in mano a organizzazioni criminali. Togliere a queste il potere di controllare il mercato, potere che è tanto più forte quanto più lo Stato si mostra intransigente verso la droga sul piano giuridico, significherebbe, secondo questa posizione, non solo ridurre il danno ma ridurre le dimensioni del fenomeno stesso.
La stabilità del consumo di eroina nei Paesi UE, la sua trasformazione cioè in fenomeno endemico, non significa comunque che non vi siano ancora emergenze legate all’utilizzo di questa sostanza. La diffusione delle infezioni virali correlate all’uso di stupefacenti è uno dei dati più allarmanti segnalati dal rapporto dell’Osservatorio: “La vera emergenza degli ultimi anni è quella delle epatiti”, spiega ancora Carla Rossi, “probabilmente perché dell’HIV si è parlato così tanto che ormai il messaggio è passato, mentre ci sono percentuali altissime di infezioni da HCV, una situazione epidemiologica apparentemente meno grave ma sempre molto pericolosa, perché nel 90 per cento dei casi porta a cirrosi e tumori”. Il virus dell’epatite C, inoltre, si trasmette più facilmente di quello dell’AIDS: il contagio può essere veicolato anche da materiale utilizzato per l’iniezione diverso dalle siringhe, come cotone, cucchiai, acqua, anche se molto meno per via sessuale. La prevalenza del virus dell’epatite C tra i tossicodipendenti è ovunque elevatissima, e va dal 40 per cento fino al 90 per cento in Svezia, Germania e in alcune regioni italiane.
Come rispondono a queste emergenze i Paesi europei? “Non c’è nessuna linea comune, neanche sulle cose più semplici”, afferma la studiosa, “e soprattutto non ci sono quelle che con un brutto termine tecnico si chiamano implementazioni delle politiche comuni, cioè non ci sono dal punto di vista pratico interventi assimilabili”. Banalmente, anche gli interventi di terapia degli eroinomani sono molto differenziati da uno stato all’altro, e in diversi Paesi, come l’Italia, sono diversi addirittura da regione a regione e da provincia a provincia. “Per esempio”, continua Rossi, “esperienze come le injecting room, che sembra funzionino molto bene in alcuni Paesi, sono attuate solo in alcune città, e sempre con molte resistenze da parte dei governi centrali. Anche se i dati danno certamente ragione alle città che hanno scelto questa politica”.
Le injecting room sono locali in cui i tossicodipendenti possono iniettarsi eroina in condizioni protette, igienicamente garantite, e disponendo di siringhe sterili. Nel settembre del 2001, di queste sale in Germania ce ne erano 19 e oltre 20 sale ufficiali erano operanti nelle città olandesi. La Spagna ne ha aperta una nel maggio del 2000, a Las Barranquillas, e un’unità mobile di iniezione è operativa dal 2001 a Barcellona. Secondo l’OEDT, numerosi studi forniscono una qualche prova dei quattro principali benefici attesi da strutture di questo tipo: ridotto disturbo pubblico; migliore accesso ai servizi sanitari e ad altri servizi del welfare; ridotto rischio di overdose correlata agli oppioidi; ridotto rischio di trasmissione di virus tramite il sangue. “Lo si vede chiaramente”, prosegue Carla Rossi, “se si confrontano i dati sui decessi per overdose dell’intera Germania con quelli dell’Assia, la regione in cui si trova Francoforte, e questi ultimi con quelli della stessa città. I dati mostrano un lieve aumento dei decessi a livello nazionale tedesco, una sostanziale stabilità in Assia e una decisa diminuzione a Francoforte. Non è detto che il dato sia dovuto unicamente alle injecting room. Ma sappiamo che molte overdose non si verificano se l’iniezione non avviene per strada ma in un posto protetto e c’è da pensare che almeno una parte di quella diminuzione sia dovuta a quel tipo di approccio”.
Negli altri Paesi europei, tuttavia, questo tipo di iniziative sono guardate con molta diffidenza. In Norvegia, il governo precedente aveva suggerito di svolgere una audizione pubblica che desse il consenso alla sperimentazione di strutture di questo tipo. Ma l’attuale esecutivo sostenuto anche dal responso dell’audizione, in maggio, ha deciso di bloccare l’iniziativa. Anche in Danimarca la proposta di una injecting room è stata archiviata nel 2000. In Lussemburgo, un passo avanti è stato fatto di recente, con la rimozione degli ostacoli giuridici che impedivano di considerare queste iniziative alla stregua di altri interventi di assistenza ai tossicodipendenti. In Austria, un recente sondaggio commissionato dal governo ha rilevato un atteggiamento più favorevole rispetto a cinque anni fa, il che potrebbe preludere a un’apertura alla sperimentazione.
In Italia, invece, dell’opportunità di sperimentare le injecting room non si parla nemmeno. In effetti, da noi vige un moderato proibizionismo: l’uso di droghe non è un crimine, tuttavia, il possesso di qualunque droga è proibito e punibile con sanzioni amministrative nel caso di modiche quantità per uso personale e con la prigione nel caso della vendita e del traffico. Ma sul fronte della riduzione del danno, le uniche esperienze riguardano solo i camper informativi. Esistono dati attendibili in merito a queste esperienze “di strada”, per esempio quella di Roma, e si sa che il numero di overdose si è ridotto.
Eppure, lo scorso ottobre il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, intervenendo a San Patrignano, ha parlato di “tolleranza zero” verso le droghe e di voler abbandonare iniziative ispirate a un “malinteso concetto di riduzione del danno”. “Una posizione assolutamente antiscientifica, questa secondo Carla Rossi: “Francamente ho l’impressione che siano solo chiacchiere. D’altronde a San Patrignano si va per dire quello, ma è comunque grave. Sarebbe bene che un Presidente del Consiglio si informasse prima di fare considerazioni di questo tipo, e se non può farlo lui sarebbe bene che avesse uno staff”.
In effetti, quando si vanno a confrontare i dati, le politiche più proibizioniste e restrittive non fanno una gran bella figura in termini di efficacia, uscendone sistematicamente peggio rispetto a tutti gli indicatori pesanti, come overdose, decessi per overdose, diffusione di malattie infettive virali.
Prendiamo per esempio uno studio commissionato dal Parlamento Europeo che confronta le due politiche agli estremi opposti in Europa [2]: quella svedese, che è considerata la più repressiva, e quella olandese, considerata la più lassista da chi la denigra, o la più di buon senso secondo altri. In Svezia, dal 1988, il consumo di narcotici è un crimine, punibile con una multa o con la detenzione fino a sei mesi, e distinto dal reato di possesso e da quello di spaccio solo per grado di gravità: violazioni minori sono il consumo e il possesso per uso personale, ordinarie il possesso di ingenti quantità e cessione ad altri, serie la produzione e il traffico. La legislazione olandese, al contrario, si basa su due capisaldi: la separazione del mercato della Cannabis da quello delle altre droghe, e la non punibilità di qualunque consumo di droghe. Per quanto riguarda la Cannabis, la sua vendita nei coffee shop, anche se tecnicamente costituisce un crimine, viene tollerata in nome dell’esigenza di tenere i consumatori lontano da sostanze più pericolose per la salute. Per quanto riguarda le droghe cosiddette pesanti, chi viene trovato in possesso di modiche quantità (meno di 0,5 grammi) non è perseguito, anche se la sostanza viene sequestrata.
La filosofia giuridica predominante nei Paesi Bassi è che compito dello stato sia fare tutto il possibile per evitare che i consumatori di droghe entrino in contatto con gli ambienti criminali in cui sarebbero al di fuori della portata delle istituzioni incaricate della prevenzione e della terapia. Ebbene: in base ai dati presentati nello studio, la politica olandese vince il confronto, per esempio, rispetto a uno degli indicatori più importanti, la prevalenza di uso problematico di stupefacenti (definito come uso regolare sul lungo periodo di oppiacei, cocaina e/o anfetamine), e stimato tra il 2,5 per mille e il 3,5 per mille della popolazione generale in Svezia, e tra il 2,3 per mille e il 2,7 per mille nei Paesi Bassi.
I dati olandesi sono sicuramente scomodi per i fautori della war on drugs, ed è facile capire perché siano stati al centro di un’aspra polemica che poco più di un anno fa contrappose la stessa Carla Rossi a Pino Arlacchi: alcuni mesi dopo la pubblicazione del rapporto ONU (World Drug Report 2000), la studiosa pubblicò una nota critica in cui accusava il rapporto, e in prima persona il direttore dell’agenzia che ne aveva personalmente curato l’edizione, di “incongruenze, e soprattutto manipolazioni”. Sotto accusa era il modo in cui erano stati ripresi i dati dell’Osservatorio Europeo. In particolare, quelli dei tre Paesi del Benelux, che venivano aggregati in modo improprio, sottintendendo una situazioni simile nelle tre nazioni. In questo modo, i dati dell’Olanda, che mostrano una situazione decisamente migliore per quanto riguarda il consumo di eroina e i decessi per overdose, venivano “annacquati” dalla somma con i dati del Belgio e soprattutto del Lussemburgo, che ha invece una situazione particolarmente pesante rispetto agli stessi indicatori. “In realtà”, scriveva nella sua critica Carla Rossi, “la stima riportata nel WDR 2000 come stima Benelux non compare nella tabella originale e, quindi, non è di fonte EMCDDA [ovvero dell’Osservatorio europeo, OEDT nella dizione italiana, N.d.R.], ma è una elaborazione ad hoc che proviene dalle diverse stime ottenute per Belgio, Olanda e Lussemburgo messe insieme in un indegno minestrone. I tre Paesi si comportano, invece, in modo completamente diverso rispetto al problema. Basti osservare che nel piccolo Lussemburgo i valori sono più che doppi rispetto al Belgio e tripli rispetto all’Olanda.
Credo che un’operazione come quella compiuta nel costruire la tabella del WDR 2000 non possa che essere stata decisa per oscurare i dati olandesi, tanto più positivi di tutti gli altri, utilizzando un trucco ignobile. […] Per molte pagine si va avanti cercando solo di trovare disperatamente qualche dato che contraddica l’interpretazione di una miglior situazione in Olanda per l’uso di eroina rispetto ad altri Paesi, ma questa è un’abitudine che è diffusa anche negli USA e viene sistematicamente contraddetta dalla comunità scientifica internazionale” [1]. D’altronde, aggiunge ora la studiosa italiana, “di questioni statistiche Arlacchi non era padrone, e probabilmente neanche si rendeva conto di quanto fossero scorrette dal punto di vista metodologico certe aggregazioni”.
I dati dell’Osservatorio Europeo sono elaborati con grande attenzione alle metodologie statistiche, proprio in considerazione della rilevanza politica e della facilità con cui possono essere distorti per sostenere l’una o l’altra tesi. Sono state indicate linee guida molto rigorose, basate sui principali indicatori epidemiologici: prevalenza nella popolazione generale, prevalenza di uso problematico, decessi per overdose e per altre cause, diffusione delle malattie infettive, indicatori di criminalità. “I dati sono raccolti tendenzialmente secondo uno stesso protocollo, anche se in realtà non si riesce a ottenere l’assoluta comparabilità dei dati”, spiega Rossi, che per formazione è una matematica e un’esperta di statistica. Tutti i Paesi dell’Unione Europea dispongono di queste linee guida e quindi di schede di raccolta dati uguali. Ma non tutti riescono a compilarle nel formato originale perché non hanno nei loro archivi i dati nella forma richiesta.
Dall’Italia, per esempio, non si riesce ad avere i dati della diffusione delle malattie infettive tra i tossicodipendenti divisi sia per età che per sesso. Oltre alla definizione dei protocolli, anche l’attuazione a livello dei singoli Stati negli ultimi anni è andata avanti velocemente. Oggi i dati di cui dispone l’Osservatorio, anche se non completamente comparabili, sono molto più affidabili di tre o cinque anni fa. “Il grande problema metodologico”, spiega la ricercatrice, “è che non tutto è osservabile: finché chi usa droga non compare in qualche registro, perché viene arrestato o ricoverato o muore, nessuno lo vede. La maggior parte dei cannabisti per esempio è assolutamente ignota.
Per calcolare il numero dei consumatori si fanno delle stime statistiche, con i metodi cosiddetti “per popolazione nascosta”. E anche per questo ci sono linee guida a livello europeo. A seconda di quello che si ha a disposizione in un determinato Paese si può usare un metodo oppure un altro. “In generale”, continua Rossi, “le stime che vengono prodotte sono relativamente comparabili, anche se non tutte ugualmente affidabili. Se una stima dice, come nel caso italiano, che ci sono trecentomila utilizzatori di eroina, possono essere trecentocinquantamila o ducentottantamila, ma non sono sicuramente un milione. Un’idea della grandezza del fenomeno si riesce ad avere”.
Anche per quanto riguarda la lotta al narcotraffico, Rossi è scettica sull’efficacia delle misure da war on drugs di cui Pino Arlacchi si era fatto paladino: “Sequestri e operazioni di polizia sono poco efficaci. Il loro numero non è una misura dell’efficacia della lotta alla droga, semmai lo è delle dimensioni del traffico. I sequestri sono semplicemente una tassa pagata dai trafficanti, e nemmeno molto alta: è inferiore a quelle pagate dalla maggior parte dei commercianti. Dagli ultimi dati dell’ONU si vede che l’interception rate (il rapporto tra quantità sequestrata e quantità circolante) non è cambiato nel corso degli anni. C’è stato effettivamente un crollo della produzione in Paesi come l’Afghanistan [presumibilmente a seguito degli accordi tra l’Agenzia ONU e il governo talebano, N.d.R.] e Thailandia, ma contemporanemante c’è stato un aumento impressionante della produzione in Colombia, dove prima era l’eroina era praticamente assente. Tra il 1992 e il 2000 la produzione di eroina in Colombia è salita in modo esattamente corrispondente al calo in Thailandia: c’è stata semplicemente una sostituzione. Quando viene colpita la produzione in un Paese, il mercato cerca semplicemente altre soluzioni”.
In ogni caso, dal marzo del 2002 Arlacchi non è più il direttore dell’agenzia antidroga: al termine di una lunga polemica verso il suo operato, cominciata al tempo delle trattative con il governo talebano e terminata con le accuse di diversi funzionari dell’Agenzia che gli rimproveravano una gestione troppo personalistica dell’ODCCP, è stato lo stesso Kofi Annan a chiedere che, scaduto il mandato, il sociologo lasciasse l’incarico. Al suo posto ora c’è un altro italiano, Antonio Maria Costa, economista, ex segretario generale aggiunto dell’OCSE e direttore generale per l’economia e la finanza della Commissione Europea. E chissà che questo avvicendamento porti anche a un cambiamento di rotta. “Lo staff tecnico è sempre lo stesso, da prima di Arlacchi ed è di buon livello. Quello che sicuramente mi sembra diverso è l’atteggiamento del nuovo direttore, più aperto e pragmatico. Sembra esserci per lo meno maggiore onestà intellettuale, la disponibilità ad analizzare i dati senza tirarli in una sola direzione. Il nuovo rapporto che sta per uscire, preparato in realtà sotto la vecchia gestione ma pubblicato con una introduzione firmata da Costa, sembra molto ben fatto, non nasconde niente”.