Cinque attori sieropositivi, ma non tutti i set si bloccano. E non si ferma il contagio.Gli amici la chiamano Mitch, nome da dura perché quando iniziò la carriera di pornodiva nel cinema «legittimo» furoreggiava un certo Clint (Eastwood). Ma nell’enfasi dei tabloid da supermercato è diventata la «Madre Teresa del porno». Sharon Mitchell, 46 anni portati benone, abbandonato il porno ha preso la laurea ed è diventata il dottore più sexy d’America. Ora sta cercando di salvare il mondo del porno, colpito da un contagio aids che mette in pericolo, oltre alla vita virtuale delle case di produzione, la sopravvivenza degli attori. Quando un mese fa Darren James, detto «Black stallion» (malgrado abbia superato la quarantina), al ritorno da un viaggio di lavoro in Brasile è risultato sieropositivo al periodico controllo nella Aim (Adult industry medical), la clinica che Mitchell ha fondato nel 1998, e che monitora l’attività degli attori del porno, è scattato immediatamente il piano di emergenza. Ha rintracciato tutti i partner dell’attore e li ha messi in quarantena. Fino all’8 giugno nessuno della lista delle 65 pornostar dovrebbe lavorare.
Le più grandi case di produzione della San Fernando Valley (l’equivalente delle major hollywoodiane per il porno) hanno accettato di fermare per due mesi la produzione. E per la prima volta dopo sei anni (la crisi precedente fu nel 1998) una buona percentuale delle 1.200 pornostar californiane sono disoccupate: se vogliono fare l’amore, devono farlo in privato, non in pubblico e non a pagamento. In questo momento, scherza qualcuno «il Kamasutra è tornato a essere un hobby, non un lavoro, un piacere e non un dovere». Altri quattro attori sono già risultati sieropositivi. A parte il transessuale Jennifer, le altre tre, Lara Roxx, Jennifer Dee e Miss Arroyo, sono direttamente legate a Darren James, che, in tre settimane ha recitato con 21 diverse partner. Ma ci vorrà un altro mese per sapere se il contagio è circoscritto. E la crisi ha scatenato numerose polemiche.
C’è chi approfitta per tuonare di nuovo contro il porno, approfittando per minacciare almeno un aumento delle tasse (in un mondo che ha un fatturato di circa 12 miliardi di dollari) e chi vorrebbe invece che fosse dichiarato obbligatorio l’uso dei preservativi. È sceso in campo Larry Flynt, il boss dell’impero Hustler. Pur avendo aderito allo stop della produzione, sostiene che «malgrado questa crisi il set di un film porno è ancora il luogo più sicuro per fare sesso». I controlli ogni 30 giorni, in grado di scovare qualsiasi malattia sessuale contratta fino a due settimane prima, renderebbero a suo dire un film molto più sicuro della vita reale. Le case di produzione Vivid e Wicked, che girano solo scene con preservativo, sono un’eccezione: l’83 per cento è sesso non protetto. E per convincere i dubbiosi i produttori arrivano a pagare la stessa identica scena il doppio se la pornostar rinuncia al preservativo.
Malgrado il campanello d’allarme la maggior parte delle case di produzione minori non solo non ha sospeso l’attività ma l’ha incrementata, aggiungendoci il fascino del fattore rischio. E addirittura ne sono nate alcune nuove, stile kamikaze. Una usa uno slogan che fa il verso a un romanzo di Gabriel García Márquez: «L’amore al tempo dell’aids». E un paio degli attori in quarantena, anche se in America non possono lavorare, sono già stati segnalati sui set dei paesi dell’Est dove i controlli sono meno rigidi. Per colmo d’ironia, Darren James, l’«untore», è diventato attore porno solo perché è stato scartato all’esame di poliziotto.