A venti anni dalla sua scomparsa avvenuta per Aids, siamo in grado di misurare tutta la fallacia del celebre slogan lanciato da Jean Baudillard.Dimenticare Foucault? È davvero impossibile. E oggi, a venti anni dalla sua scomparsa avvenuta per Aids, siamo in grado di misurare tutta la fallacia del celebre slogan lanciato da Jean Baudillard, in un pamphlet certo brillante ma dalla vista corta (Dimenticare Foucault, Cappelli, 1977). Che cosa c’era al centro di quell’attacco iridescente e paradossale, mosso dal filosofo dei «simulacri» al filosofo del Potere? C’era il Potere, giustappunto. Per Baudrillard entità vuota ed evanescente, che Foucault avrebbe avuto il torto di celebrare, nell’atto stesso di volerlo denunciare. Una sostanzializzazione dell’«astratto», o «cosificazione» dell’indicibile, che finiva in una dialettica a due tra bene e male , tra libertà e oppressione. Con buona pace del «pensiero negativo» e del ripudio dell’Umanesimo, che pure era stato al centro di formidabili bordate foucaultiane.
Baudrillard sbagliava. Per eccesso di criticismo nichilista. Perché invece, ciò per cui assolutamente non si deve dimenticare Foucault, è proprio la sua invenzione concettuale del Potere. Che mai fu, nel filosofo nato a Poiters nel 1926, entità generale o «nume ascoso», e nemmeno centro dominatore o idra dalle mille teste da decapitare. Bensì una relazione di forza, un campo di relazioni di forza storicamente determinato e strutturato dal linguaggio. Nient’altro altro che il potere demiurgico delle parole sulle cose. Potere cristallizzato in paradigmi linguistici, che di volta in volta, nelle fasi del divenire, filtrano e governano la produzione e la riproduzione della vita e dell’esperienza. La vita dunque, e le relazioni di forza dentro la vita, laddove forza era per Foucault la pulsione stessa del vivente incarnata in forme simboliche. In dispositivi di azione semiologica: dal potere dello sguardo, ai sintagmi scientifici della clinica, dell’etica, della psichiatria, delle scienze umane in generale. Ecco, il potere per Foucault era un esperienza da vivere e decostruire. Niente affatto sostanza o divinità assisa su qualche trono.
Ebbene, di tale visione del Potere ci parla non soltanto l’opera di Foucault, dipanata in lavori che restano fondamentali nel secolo trascorso: Le Parole e le cose, la Storia della follia, Sorvegliare e punire, la Storia della sessualità. Con i grandi addentellati interni, Volontà di sapere, uso dei piaceri, Cura del sé. Di questa idea del Potere ci parla la vita stessa di Michel Foucault, cominciata all’insegna di una rivolta e segnata in prima persona dalla pratica della sofferenza mentale. Un disagio vissuto da entrambi i lati. Come paziente e come clinico.
La rivolta è quella contro il padre Paul André, chirurgo anatomista che lo obbligava ad assistere ad amputazioni e autopsie, nel tentativo di farne un medico asciutto e senza fronzoli. Uno scienziato positivista nel solco di quell’«ideale dell’io» scientista che sarà al centro dell’offensiva del medico mancato Foucault. Il giovine Michel prende tutt’altra strada benchè, poi, proprio la sua attività da entomologo decostruttivo conserverà per sottigliezza e precisione qualcosa della ripudiata lezione paterna.
Sicché dopo un ricovero per una grave depressione, si imbarca in ben altra carriera. Licenziatosi in filosofia a Parigi nel 1948 e uditore di Merleau-Ponty e Althusser, si abiliterà in Psicologia l’anno successivo, fino a ottenere nel 1952 il diploma in psicopatologia. Lpisia, Upssala, Varsavia, Amburgo, Clermont- Ferrand, Lilla sono le città e gli istitituti di psicologia dove Foucault lavora. Prima del 1970, anno in cui a Parigi succederà al suo maestro Jean Hyppolite sulla cattedara di Storia dei sistemi di pensiero (che si chiamava, prima dell’avvento di Foucault, Storia del pensiero filosofico). E in precedenza il non più giovane Michel aveva trovato il modo di fare una sosta a Tunisi, dove insegnò appunto filosofia. Bizzarro curriculum quello di Foucault. Paziente depresso, psicologo, storico dei sistemi di pensiero, e infine saggista celebratissimo nonché attivista contro il regime carcerario e per i diritti dei gay, dagli anni settanta. Non basta, perché prima dell’avvio della carriera vera e propria, Foucault fu comunista e militante del Pcf (fino al 1952). Un comunista sui generis: nietzscheano. E molto più husserliano, heideggeriano ed «hegeliano», che non marxista. Benchè il marxismo sia presente eccome nel codice genetico dei pensieri di Foucault. Ma c’è ancora dell’altro nel bagaglio di Foucault, che spesso gli esegeti tendono a trascurare, e che forse cela il vero segreto della mentalità foucaultiana: «il pensiero del fuori».
Pensiero del fuori è nozione inventata dallo stesso Foucault. Che vi dedicò nel 1966 un volume, subito dopo aver scritto Le parole e le cose, in guisa di autochiarificazione intellettuale (il foucaultismo è anche autobiografia concettuale). Si tratta di un pensiero-limite, di un pensare sciolto dalle pastoie della logica, e che si pensa dal di fuori, nello scoprirsi parlato dal linguaggio. Il miglior viatico per pensare quel pensiero stravolto e rovesciato è per Foucault la narrativa di Blanchot. Dove il «soggetto» si moltiplica e rifrange nel dedalo delle illusioni romanzesche. E poi ancora nella «furia del dileguare» nichilistica tipica del romanzo libertino classico: Cazotte, Crébillon, Diderot, Sade, Laclos, Restif de la Bretonne.
E a questo punto i pezzi della scacchiera pensante di Foucault sono quasi tutti disposti. Ci sono la fenomenologia, il freudismo, la psichiatria, il marxismo, la semiologia, lo strutturalismo, la narrativa libertina, classica, d’avanguardia e «post». E c’è « un pensiero/antipensiero» a cucire il tutto, con l’eccezionale energia di un lavorio d’archivio che invera, su un piano inedito e originale, la lezione delle «Annales». Nasce così una storia contro. Una storia diagonale tra passato e presente, che è genealogia dell’attualità, intessuta di fonti molteplici: iconografiche, statistiche, giudiziarie, cliniche, demografiche, economiche, geografiche, topografiche, urbanistiche. E valgano come esempio sintetico le meravigliose descrizioni del trasformarsi dei lebbrosari- nella Storia della Follia – in spazi asettici, che attendevano di accogliere e irregimentare i nuovi derelitti – nel nome della Ragione – dentro i loro bracci restaurati. Pagine precedute dal meraviglioso racconto sulla Nave dei Folli alla deriva sul Reno, con il loro carico sacro di dementi, medievalmente salvaguardati nella loro condizione di liberi viandanti. Lì, tra eclissi del Medioevo, Rinascimento ed età classica nasce in Foucault la Scienza razionale Autocosciente, che diverrà nel 700 Stato moderno e governamentalità di massa. Lì nasce il pensiero escludente la follia e la malattia, che è altresì potere capillare e impersonale sui corpi sui «soggetti». Creazione di dominio che pervade ogni poro della società civile, e dominio introiettato. Neutralità universale del sapere, e conversione del sapere in potere. Insomma, il Potere come fatto immateriale, che plasma sessualmente i corpi e li mette al mondo come entità pensanti. Muovendo e animando il contraccolpo della ribellione, che nasce dagli individui evocati proprio in quanto irregimentati.
E qui torniamo al cuore del problema di Foucault: il soggetto. Il soggetto frutto dell’implosione di ogni mitologema dell’Autorità e figlio di un’idea del sapere razionale e autocosciente, entro cui ciascuno parla ed è «parlato». Talché, nel massimo di oppressione capillare, si annida per Foucault il germe razionale della sovversione. Ovvero, per Foucault: Kant contro Kant. La mobilità della vita che vuol rendersi trasparente contro lo schematismo storicamente determinato della Ragion pura. Contro le forme simboliche date (è il recupero kantiano dell’ultimo Foucault). Notazione finale. Per tutta la vita Foucault volle decostruire il soggetto come involucro del Potere. Come «formazione reattiva». Ma si accorse che il Potere genera sempre soggetti. E che proprio la soggettività ribelle genera a sua volta decostruzioni. Oltretutto il soggetto viene avanti tenace dalla Grecia antica. Come dimostrò in un famoso corso al Collège de France del 1982. E senza di esso non v’è né sguardo critico, né conoscenza. Tanto vale curarlo e custodirlo. Per scombinare di continuo i giochi del Potere. Eccolo il messaggio finale di Michel Foucault, grande stoico-epicureo dell’era globale.