Introduzione
Oltre 5 mila esperti da tutto il mondo partecipano alla conferenza che è ospitata da uno dei Paesi più flagellati dal virus, con 5,7 milioni di sieropositivi. Fra i più a rischio di ammalarsi gli omosessuali, completamente scomparsi dal dibattito da quando negli anni ’80 divenne evidente che la trasmissione eterosessuale del virus era preminente nei Paesi africani.
Dichiarazioni di Montaner, presidente dell’International AIDS Society
“Il recente incontro del G8 all’Aquila ha lasciato gli esperti con l’amaro in bocca per la mancanza di un impegno a garantire l’accesso universale alla prevenzione e alla cura. Non possiamo permetterci una pausa, o peggio ancora un ridimensionamento dei finanziamenti e la crisi finanziaria globale non sia una scusa per indebolire la nostra determinazione a mantenere comunque questi impegni. Si tratta, infatti, di investimenti che permetteranno di prevenire nuove infezioni e salvare vite”. A spingere in questa direzione sono gli obiettivi fissati dalle Nazioni Unite a raggiungere l’accesso universale alle cure per il 2010, ormai vicinissimo, e quelli del Millennio a favore dello sviluppo per il 2015. Che l’impegno in questa direzione funzioni lo dimostrano i risultati ottenuti negli ultimi cinque anni, che per esempio dal 2003 al 2007 hanno portato da 400.000 a tre milioni le persone che ricevono la terapia nei Paesi in via di sviluppo. La lotta all’AIDS ha inoltre galvanizzato gli sforzi per combattere altre malattie infettive, come tubercolosi e malaria, ed ha aumentato l’attenzione per la salute materno-infantile. Per Montaner non c’è dubbio che “la salute globale è un prerequisito per lo sviluppo globale. Bisogna spingere sull’acceleratore della ricerca, per implementare tecnologie scientificamente verificate e non dovremo permettere politiche di salute pubblica ideologicamente orientate. Per fermare l’AIDS – conclude – abbiamo bisogno di entrare in una nuova era di rispetto per l’evidenza scientifica e dei diritti umani”.
Africa: pericolo discriminazione
Gli omosessuali nell’Africa sub-sahariana sono fra i più a rischio HIV/AIDS: l’ostilità sociale e politica nei loro confronti è endemica in molti stati africani e questo preclude loro l’accesso alla prevenzione e alle terapie salva-vita, ma anche all’attenzione della comunità scientifica. E’ un’analisi pubblicata sulla rivista Lancet, a cura dei ricercatori dell’Università’ di Oxford, in concomitanza alla conferenza. Secondo la ricerca che analizza i dati dal 2003 al 2009, la diffusione dell’HIV fra gli omosessuali è notevolmente più alta che fra il resto della popolazione maschile adulta. Ben 10 volte maggiore, per esempio, in alcuni Paesi dell’Africa occidentale. ”I rapporti sessuali non protetti sono comuni – rileva Smith, autore principale della ricerca – le informazioni e l’accesso alle misure di prevenzione sono inadeguate, in un contesto, spesso, di ignoranza dei rischi, violenza, detenzione, assenza di sicurezza sociale e di risorse sanitarie”. Nel 2008 ben 35 dei 52 Stati africani non sono riusciti a fornire, come richiesto dalle Nazioni Unite, i dati sulla popolazione omosessuale maschile, la percezione del rischio, la diffusione dell’HIV, l’accesso alle cure. Urge la necessità di un cambiamento di strategia, che tenga conto di questo gruppo di popolazione ad alto rischio, con campagne mirate di informazione e strumenti di prevenzione più accessibili anche nel prezzo. Nell’Africa di oggi, in cui l’omosessualità’ è illegale in 31 Paesi, si rischia la pena di morte in 4 Stati.
Europa: aumento delle diagnosi tardive
In Italia accade per il 39% delle nuove diagnosi di sieropositività. Ma la tendenza è comune a tutti i Paesi Europei: la Svezia è al primo posto, con il 45% di diagnosi tardive, seguono Francia (38%), Gran Bretagna (33%), Germania (30%) e Spagna (28%). Paura dello stigma, mancanza di informazione e una bassa consapevolezza del problema sono le cause principali per cui non si fa il test.
Studi su pazienti naive
Studio Merit ES (J Heera et al abs TUAB103). I risultati a 96 settimane, che confrontano maraviroc (MVC) ed efavirenz (EFV) in associazione ad AZT+3TC, confermano la solidità del regime. Il confronto tra MVC ed EFV è rispettivamente: 58.5% versus 62.4% per la carica virale < 50 cp/mL; 60.5% versus 60.7% per il ‘tempo di perdita della risposta virologica (TLOVR); 66.9% versus 66.0% sono i pazienti che non hanno mutato regime terapeutico a 96 settimane; +212 versus + 171 il guadagno di CD4. Buono o simile tra i due bracci anche il profilo di sicurezza. In particolare, rispetto all’innalzamento di colesterolo LDL, prendendo come parametro di soglia quello dell’inizio di una terapia specifica: 1.5% dei pazienti versus 9.9%.
Raltegravir 144 settimane (E Gotuzzo et al abs MOPEB030). 198 pazienti, in questo studio di fase II, multicentrico e in doppio cieco sono stati randomizzati a ricevere 400 mg BID di raltegravir (le prime 48 settimane erano di dose-ranging, quindi i pazienti assumevano vari dosaggi) o 600 mg di efavirenz, in associazione a tenofovir/lamivudina. La carica virale < 50 cp/mL a 144 settimane si è riscontrata nel 78% di coloro che assumevano raltegravir e nel 76% per EFV. Simile il guadagno dei CD4 (252 versus 233), minori gli effetti collaterali globali (54% versus 76%). Minimo l’effetto sui lipidi di raltegravir. Questo studio conferma la solidità del regime a 3 anni.
Studio ARTEN (V Soriano et al abs LBPEB07) – E’ il primo prospettico, su larga scala (569 pazienti), che ha confrontato l’efficacia virologica dei due antiretrovirali caratterizzati da un minore impatto sul profilo lipidico del paziente, nevirapina e atazanavir/r, entrambi in associazione con tenofovir ed emtricitabina. Lo studio ha dimostrato non solo che l’efficacia virologica di nevirapina è sovrapponibile a quella di atazanavir/r (anche con carica virale al basale alta: il 64% dei pazienti aveva più di 100.000 copie), ma anche che l‘associazione con NVP ha un effetto più favorevole sul profilo lipidico. In particolare, rispetto ai valori basali, nevirapina ha determinato un incremento del HDL-c (il cosiddetto colesterolo buono) superiore al doppio di quello ottenuto con atazanavir/r (9,7 mg/dl rispetto a 3,9 mg/dl (P<0,0001). Anche il rapporto tra colesterolo totale e HDL-c è stato significativamente migliore con NVP (P<0,0001).
Altri studi
Studio inglese su DRV/r (C Scott et al abs MOPEB054). 187 pazienti hanno iniziato una terapia a base di DRV/r al dosaggio 900/100 mg in associazione con NRTI. Non vi era resistenza al basale per DRV. 24 pazienti erano naive e 155 pre-trattati, 108 dei quali con carica virale < 50 cp/mL. Alla settimana 48, in un’analisi ITT, la carica virale < 50 cp/mL è stata del 78% nei pazienti naive e del 72% nei pazienti pre-trattati. I 4 fallimenti osservati in questo gruppo erano dovuti a scarsa aderenza, Nessuna resistenza a DRV è stata comunque identificata. In generale, 32 pazienti hanno interrotto il trattamento o per diarrea o per scelta del paziente. Il regime, comunque, si è dimostrato efficace e ben tollerato.
Studio ARIES (Squires K et al abs WeLBB103). Pazienti naive che hanno iniziato una terapia di combinazione a base di atazanavir /r + ABC + 3TC, con carica virale < 50 cp/mL e senza storia di fallimento terapeutico possono eliminare il ritonavir. Dopo 36 settimane dalla preselezione delle condizioni al basale, 419 pazienti sono infatti stati randomizzati o a continuare il regime assunto o ad eliminare il ritonavir. A 48 settimane (quindi 84 in totale), la percentuale di pazienti con carica virale < 50 cp/mL era 86% (gruppo senza ritonavir) versus 81%, indipendentemente dalle cariche virali alte al basale (ad inizio di terapia, ossia settimana zero). Simili anche i CD4, rispettivamente 240 versus 259. Migliore il profilo sui lipidi e l’iperbilirubinemia nel braccio senza ritonavir.
Studio M06-802 (Zajdenverg R et al abs TuAb104). LPV/r assunto una volta al dì come parte di una combinazione di farmaci antiretrovirali ha dimostrato pari efficacia in pazienti pre-trattati, ma con un miglioramento sull’aderenza. Questo studio è a complemento di simili risultati passati su pazienti naive. 599 pazienti con carica virale media > 4000 cp/mL, 254 CD4 e, sempre in media, una mutazione primaria agli IP, sono stati randomizzati a ricevere LPV/r o al dosaggio 800/200 mg QD o 400/100 mg BID più due NRTI. Dopo 48 settimane, il 55% dei pazienti del braccio QD aveva carica virale < 50 cp/mL versus il 52% del braccio BID, ne consegue la dimostrazione di non inferiorità. L’aumento dei CD4 è paragonabile nei due gruppi (rispettivamente 135 versus 122). L’utilizzo di dispositivi elettronici nell’apertura dei flaconi del farmaco ha messo in luce che i pazienti nel braccio QD erano più aderenti. Simili gli effetti collaterali nei due gruppi e le uscite dallo studio in entrambi i gruppi erano dovuti ad altre cause rispetto agli effetti collaterali.
Studio GRACE – Gender, Race And Clinical Experience (K Squires et al abs MOPEB042). E’ di fase 4, a 48 settimane, e conferma l’efficacia e la sicurezza di DRV/r 600/100 mg BID in associazione con altri antiretrovirali in pazienti pretrattati, con particolare attenzione alle donne e alle persone di colore, dimostrando così la fattibilità di studi clinici dedicati a tutta la popolazione. Si propone dunque un possibile nuovo standard scientifico, che tenga conto della popolazione reale e non di quella ‘spesso ideale’ arruolata negli studi clinici.
Darunavir/r monoterapia
Studio MONET (Arribas J et al. abs TuAb106, 2009). 256 pazienti con carica virale < 50 cp/mL da almeno 6 mesi sono stati randomizzati a DRV/r 800/100 mg monoterapia (127) o in associazione con 2 NRTI eventualmente ottimizzabili (129). CD4 al basale in media: 575; età media: 43 anni; tutti assumevano terapia da circa 6-7 anni. Nessuno dei pazienti aveva mai assunto darunavir, il 43% assumeva un NNRTI ed il 57% un IP. Nessuno aveva storia di fallimento virologico. Il fallimento virologico è stato definito come due misurazioni consecutive di carica virale > 50 cp/mL oppure interruzione dei farmaci (i pazienti potevano infatti cambiare gli NRTI) oppure aggiunta degli NRTI alla monoterapia. Dopo 48 settimane, secondo l’analisi TLOVR (tempo di perdita della risposta virologica), nella quale il cambiamento di farmaci è stata considerata come fallimento, l’86% dei pazienti (braccio in monoterapia) versus l’88% (braccio in triplice) hanno conservato carica virale < 50 cp/mL. L’analisi ITT mostra, rispettivamente, sulla tenuta virologica 84% versus 85%. I CD4 sono rimasti stabili in entrambi i gruppi. In questo modo, si è dimostrata la non inferiorità della monoterapia a 48 settimane. L’efficacia delle strategie, includendo anche pazienti che hanno cambiato i farmaci, è stata sempre rispettivamente del 94% versus 95%. Blips viremici erano più comuni nel braccio a monoterapia (sempre tra le 50 e le 400 copie) e la carica virale è stata risoppressa nel momento in cui si sono aggiunti nuovamente gli NRTI. Simili gli effetti collaterali in entrambi i gruppi. 1 paziente per gruppo ha sviluppato una resistenza agli IP.
STUDIO MONOI-ANRS 136 (Katlama C et al. abs.WeLBB102, 2009). 242 pazienti con carica virale < 400 cp/mL da almeno 6 mesi e < 50 cp/mL all’ingresso nello studio sono stati inizialmente trattati con DRV/r 600/100 mg BID + 2 NRTI per 8 settimane. In seguito sono stati randomizzati o a rimanere con la combinazione assegnata o a interrompere gli NRTI. La randomizzazione è avvenuta su 225 pazienti: CD4 medi al basale 600 cellule, età media 46 anni. Nessun partecipante aveva mai utilizzato darunavir o era mai fallito ad un IP. La durata media della terapia era di circa 8 anni. Il fallimento virologico è stato definito come due misurazioni consecutive di carica virale > 400 cp/mL oppure interruzione o cambiamento dei farmaci. A 48 settimane, l’analisi ITT sulla tenuta virologica (a 400 copie) è dell’87% dei pazienti in monoterapia versus il 92% in triplice, mostrando così la non inferiorità. L’unica differenza di nota tra i 2 gruppi è stata la presenza di 3 effetti collaterali al sistema nervoso centrale possibilmente legati all’HIV e alla monoterapia.
Commento: Rispetto agli eventi non AIDS-relati e le comorbidità associate alla replicazione virale, la dottoressa Katlama ha osservato che questi problemi, nell’utilizzo delle monoterapie (IP/r), sono in generale riscontrati in pazienti con poche migliaia e non poche centinaia di copie. Inoltre gli effetti di scarsa aderenza sono più evidenti in questo contesto. Il dottor Arribas ha aggiunto che occorre distinguere tra i blips viremici occasionali e la continua, pur bassa, replicazione virale.
Nuovi farmaci
S/GSK1349572 (J Lalezari et al abs TUAB105). E un nuovo inibitore dell’integrasi che ha mostrato potente attività in vitro, una farmacocinetica nell’uomo che fa propendere per un dosaggio once a day ed un favorevole profilo di sicurezza. Sono stati 5 gli studi presentati, di cui quello di fase II (dose ranging), con placebo su 35 pazienti naive con carica virale > di 5000 cp/mL e CD4 > 100 cellule. I dosaggi testati in monoterapia per 10 giorni, tutti QD, sono stati di 2, 10, 50 mg o placebo. Gli autori hanno rilevato al giorno 11 una diminuzione di carica virale che, a seconda dei dosaggi, era in un intervallo tra gli 1.51 e i 2.26 log. Il dosaggio a 50 mg ha fatto raggiungere al 70% dei pazienti HIV-RNA < 50 cp/mL. Nessuna resistenza riscontrata. Vista l’ottima attività antiretrovirale, la limitata cross resistenza con raltegravir ed elvitegravir, il fatto che la molecola non debba essere potenziata con ritonavir e la somministrazione QD, si andrà in fase IIb.
Continua la controversia su abacavir
In una sessione orale presieduta da Judy Currier sulle complicanze cardiovascolari, la ‘saga’ sul ruolo di abacavir è tornata alla ribalta. In sintesi, sembra che la malattia renale cronica possa essere una possibile chiave di lettura. Ripercorrendo i vari studi su ABC, infatti, sembra che l’inclusione o meno del fattore ‘malattia renale cronica’ sia quello discriminante rispetto all’associazione con infarto. Qualcun altro ha osservato anche la maggiore tendenza prescrittiva di ABC in pazienti che soffrono di malattia renale. Dominique Costagliola osserva che anche l’utilizzo di cocaina e droghe iniettive sono un possibile fattore confondente. Molte possibilità, dunque, che comunque non mettono la parola fine alla questione. Tuttavia, il limite degli studi di coorte nella rilevazione di specifiche problematiche, proprio a causa dei possibili valori confondenti, è molto elevato (Lundgren J et al abs 44LB, Bedimo R et al abs MOAB202, Costagliola D et al abs MOAB201).
Diagnostica/maraviroc: verso un screening genotipico
Un approccio genetico per determinare il tropismo virale del paziente può essere efficace. E’ quanto emerge da un’analisi retrospettiva degli studi MOTIVATE I e II. Utilizzando la genotipizzazione HIV V3 (algoritmo geno2pheno, già molto diffuso) sui campioni conservati dagli studi, è emerso che la previsione data dal test Trofile (usato negli studi, metodica fenotipica), sia per i cambiamenti della viremia sia per la percentuale di pazienti che sarebbero poi risultati undetectable con l’utilizzo di maraviroc, è paragonabile alla metodica genotipica. Questo consentirebbe più velocità e costi più bassi (P R Harrigan et al WELBA101).