Aliquota fiscale ridotta al 10% per i ricercatori italiani che tornano in Italia: lo prevede la finanziaria per combattere il «brain drain». Una norma inefficace e discriminatoria nei confronti dei ricercatori che sono rimasti in Italia.Nella finanziaria è previsto per i ricercatori italiani attualmente residenti all’estero un incentivo al ritorno consistente nella riduzione delle loro tasse tale che la loro aliquota sarebbe ridotta al 10%. Si tratta di una norma assolutamente poco efficace: chi vive del proprio lavoro non cambia paese, ambiente e luogo di lavoro, reddito e relazioni sociali per una riduzione fiscale sul nuovo salario. Inoltre, la norma è assolutamente discriminatoria nei confronti di ricercatori italiani che sono già tornati dall’estero o che non hanno potuto andarci. Ed è anche una norma ingiusta, che contiene il solito equivoco messaggio secondo il quale le tasse non vanno pagate secondo un criterio progressivo e di equità, ma secondo l’appartenenza a particolari gruppi. Insomma né dal punto di vista pratico né dal punto di vista dei principi mi sembra che questa sia una buona norma per favorire il rientro o ridurre la cosiddetta fuga dei cervelli. Sulla questione della fuga dei cervelli – cioè sulla necessità per i giovani e meno giovani studiosi italiani di andare o rimanere all’estero per mancanza di opportunità in Italia – si è di recente alzato un polverone che impone qualche chiarimento e un inizio di riflessione con cognizione di causa. Sull’argomento si sa poco e si confondono realtà profondamente diverse fra di loro. Anche il termine frequentemente usato nella letteratura e nel dibattito politico (brain drain, drenaggio dei cervelli) contribuisce a creare confusione. In prima istanza tutto è intuitivamente chiarissimo: cosa esprime la presenza di tanti ricercatori anche di alto livelli indiani, pakistani, coreani, maghrebini presso università americane e anche europee se non un drenaggio di cervelli? Ma la questione si fa più complicata quando si tratta di paesi avanzati come l’Italia.
Il tema è divenuto di attualità sia perché effettivamente la tematica delle migrazioni di personale con elevato titolo di studio è ormai centrale nel campo degli studi migratori, sia perché in Italia la chiusura delle possibilità di lavoro nel campo della ricerca per i giovani studiosi li spinge a cercarsi un lavoro all’estero, sia infine per una ondata di nazionalismo, che rivendica il recupero di una risorsa che sarebbe stata appunto drenata fuori dal paese. Si confondono così realtà diverse, anche se in qualche modo intrecciate fra di loro. C’è in primo luogo la naturale mobilità territoriale delle élites intellettuali, comprese quelle del mondo della ricerca scientifica e tecnologica: un fenomeno che è sempre esistito e che nel quadro della globalizzazione non poteva che aumentare. E questo non ha nulla a che fare con il brain drain. C’è poi l’effettivo fenomeno di presenza per lavoro all’estero da parte di un vasto e variegato ceto di ricercatori italiani – più o meno giovani, di livello scientifico più o meno alto con diversa collocazione: un continuum che va da una sorta di precariato accademico internazionale a studiosi rampanti ben piazzati grazie alle loro relazioni e anche grazie alla loro qualità scientifica. E’ con riferimento a questo secondo gruppo che si può effettivamente parlare di brain drain. La terza realtà è espressa infine da un vasto e crescente numero di laureati tra gli emigranti e gli emigrati italiani all’estero, quale che sia la loro collazione professionale, che in genere non è quella accademica.
Dall’analisi delle iscrizioni e cancellazioni anagrafiche per l’estero risulta che tra quelli che lasciano l’Italia l’incidenza dei laureati è crescente e ormai significativa tra quelli che lasciano. Nel saldo tra laureati cancellati (emigrati) e laureati immigrati la differenza è di un migliaio all’anno. Più modesta è invece l’incidenza dei laureati sul totale nei registri Aire (anagrafe degli italiani residenti in altri paesi) per l’ovvio motivo che questi registrano i nuovi, ma soprattutto i vecchi italiani residenti all’estero. In generale il dato prima citato relativo agli emigrati con elevato titolo di studio viene preso come indicatore della fuga dei cervelli. Al contrario, come è ovvio, esso esprime una realtà complessa nella quale c’è una componente, ben più significativa, che riguarda i giovani meridionali emigrati in Italia e all’estero e che è il fenomeno del sotto impiego. Ormai i giovani laureati dalle università meridionali emigrano alla ricerca di lavori assolutamente non corrispondenti al loro titolo di studio e alla loro qualificazione professionale. Allo stesso modo in cui si va a far la campagna turistica negli alberghi della riviera romagnola o nei ristoranti in Val d’Aosta si va anche a lavorare in ristoranti o in altre attività di servizio all’estero, ad esempio in Germania. E a volte queste forme di mobilità legata a lavori precari dei laureati – fenomeno in grande espansione ma ancora poco documentabile – si traduce effettivamente in un trasferimento definitivo: insomma con una buona laurea in scienze politiche si resta a lavorare presso la pizzeria dello zio a Monaco o a Wolfsburg e si prende la residenza. Che sia fuga di cervelli o no, di certo questi giovani sono emigranti laureati. Tra l’altro l’entità dei trasferimenti registrati riflette per questi solo la punta dell’iceberg, giacché solo quando il trasferimento è davvero definitivo si procede al cambiamento della residenza. Infine tra i laureati italiani residenti all’estero ci sono anche figli di emigranti italiani che hanno studiato all’estero, dove magari sono anche nati e che hanno raggiunto un titolo di studio elevato. E questo è un fatto positivo che pure non ha nulla a che fare con il brain drain.
Ma passiamo all’altro aspetto, quello della circolazione a livello internazionale degli studiosi. Il primo chiarimento riguarda il nesso tra permanenza di studiosi italiani all’estero e l’avvento, o la permanenza, di studiosi stranieri in Italia. Se il numero di entrambi è elevato significa che le cose vanno bene nel senso che c’è una partecipazione italiana ad un’attiva circolazione delle elite culturali. Per quel che riguarda più specificamente l’ambiente scientifico e di ricerca ciò vorrebbe dire in primo luogo che il nostro paese ha capacità di attrarre studiosi provenienti da paesi ricchi e da paesi poveri, i quali stabiliscono un rapporto fruttuoso di interlocuzione con studiosi nostrani e che entrano in Italia – magari fin da quando sono studenti – senza particolari vessazioni e senza particolari difficoltà. Ma da questo punto di vista le cose erano difficili in Italia e lo sono diventate ancora di più negli ultimi anni. Con l’esclusione dei programmi Erasmus – che riguardano solo gli studenti dell’Unione europea – l’Italia è avarissima di possibilità di ingresso e permanenza per gli studenti stranieri. Le norme sono restrittive e non manca una certa paranoia rispetto al rischio che gli studenti possano restare in Italia come lavoratori. Per quanto riguarda invece gli studiosi maturi ricorderanno tutti il caso del celebre studioso americano invitato dal Policlinico di Torino e bloccato perché non in regola con le pratiche relative al permesso di soggiorno: pratiche già complicate prima e divenute ancora più problematiche con il clima creato dalla nuova legge Bossi-Fini. D’altronde già da diversi anni le cose si erano fatte difficili per gli studiosi che intendevano venire in Italia, sia pure per un convegno. Ricordo il caso di un professore tunisino che conosco personalmente – uno dei più importanti studiosi delle migrazioni mediterranee – al quale per il visto di ingresso fu richiesta la pianta della casa del collega italiano che doveva ospitarlo in occasione di un seminario di studi.
Ma tutto questo riguarda le difficoltà a favorire l’ingresso dei cervelli (il brain gain, come si dice solitamente), cioè la mobilità verso il nostro paese. Per quel che riguarda l’Italia la questione più importante – o meglio quella su cui si focalizza l’attenzione – è invece il brain drain. Per dirla francamente questo a me personalmente non sembra un grosso problema, almeno per ora. E soprattutto non mi sembra un problema che si possa in alcun modo affrontare a prescindere dal contesto generale della ricerca scientifica in Italia e più specificamente della ricerca scientifica pubblica (università e istituti nazionali di ricerca). Prima di entrare nel merito di questo problema vorrei sottolineare una cosa che è bene non dimenticare. Certamente in passato, negli anni del fascismo, c’è stata una fuga, anzi una cacciata, di cervelli dall’Italia: prima per la fuoriuscita di grandi studiosi antifascisti, come Gaetano Salvemini rifugiato ad Harvard, poi per la forzata partenza di studiosi ebrei, come Franco Modigliani, premio Nobel per l’economia che è appena scomparso, o non ebrei come Enrico Fermi, che volle esprimere la dignità di seguire la sorte della moglie ebrea. E si può andare avanti con la Levi Montalcini e altri. Ma non di questo si parla oggi. Oggi il tema all’ordine del giorno sembra essere quello di attrarre gli studiosi italiani che si trovano all’estero e favorirne il ritorno.
Cerchiamo perciò di vedere perché se ne sono andati (e se vanno). La prima questione riguarda le possibilità di carriera – o semplicemente la possibilità di poter lavorare – di studiosi italiani giovani o più o meno giovani. Senza scomodare i premi Nobel, il problema più grave consiste proprio nelle mancate possibilità di lavoro e di carriera degli aspiranti ricercatori. Alcuni di loro avranno la possibilità di partire – nel senso che sono dotati di sufficiente capitale (qualificazione) umano e ed economico e una sufficiente rete di relazioni (capitale sociale) – e si può dire che – insieme a quelli che già stanno fuori – per qualche verso appartengono ad un gruppo privilegiato. Tra quelli che sono fuori, alcuni sono solo ragazzi di buona famiglia che hanno potuto pagarsi un master o un Phd e lavorano ai più diversi livelli nelle università delle più varie qualità, altri ancora sono partiti con borse di studio e guardandosi intorno hanno capito che le opportunità in Italia erano poche per loro così come lo sono per quelli che hanno proseguito gli studi fino al dottorato in Italia (che in generale qualche fruttuosa affacciata all’estero l’hanno fatta anche questi ultimi).
La questione vera riguarda la chiusura dei canali all’accesso, che si è aggravata negli ultimi e negli ultimissimi anni. Il principale istituto per la ricerca pubblica in Italia, il Cnr, già da tempo ha ridotto le assunzioni del personale di ricerca in senso stretto, con il risultato di un innalzamento significativo dell’età media dei ricercatori che si è portata sui 46 anni con l’aggiunta di un ulteriore anno per quel che riguarda il personale di ruolo. Meno male che si innalza l’attività per il pensionamento! Scherzi a parte il problema per il futuro della ricerca in Italia non è tanto quello di attrarre il singolo ricercatore che ha fatto carriera o che lavora altrove, quanto quello di investire nel miglioramento delle strutture di ricerca e aprire le prospettive di carriera e di lavoro per i giovani. Di questo si dovrebbe occupare la finanziaria, non di fissare forme legalizzate di evasione fiscale.