In Giappone, a Hong Kong, in Argentina e a Taiwan centinaia di persone sono morte di Aids – gli ultimi nel ‘96 – per aver assunto farmaci che li avrebbero dovuti aiutare a curare l’emofilia. Questa la denuncia del «New York Times», che nell’edizione di ieri accusa senza mezzi termini l’azienda farmaceutica Cutter Biological, segmento del gruppo tedesco Bayer, di non aver ritirato dai mercati asiatici e latinoamericani il «Factor VIII Concentrate». Il farmaco, pensato nel 1973 per la cura di pazienti affetti da emofilia, veniva realizzato con il plasma di donatori che non erano stati sottoposti al test per l’individuazione dell’Hiv, dal momento che allora si ignoravano i legami tra l’insorgenza dell’Aids e la presenza di Hiv. Nel 1984 però, in seguito alle maggiori conoscenze sulla diffusione dell’Aids, i tecnici Bayer avevano messo a punto un nuovo farmaco che, utilizzando plasma sterilizzato ad alte temperature, avrebbe evitato il contagio dei pazienti emofiliaci. La vendita del vecchio farmaco, secondo il «New York Times», sarebbe però continuata su alcuni mercati, fino allo smaltimento di 100 mila confezioni «infette», per un valore di 4 milioni di dollari. «Forse la vita in Asia vale meno che altrove», dice al quotidiano Li Wei-Chun, padre di un ragazzo di Hong Kong morto nel 1996 di Aids a 23 anni per aver assunto il «Factor VIII». A Leverkusen, sede del gruppo farmaceutico tedesco, gli uomini della Bayer reagiscono con una certa sorpresa: «Non riusciamo a capire come mai si parli oggi di un fatto di 20 anni fa – ci dice un portavoce del gruppo -. Ai tempi i dettagli sono stati chiariti a fondo con le autorità sanitarie internazionali, le corti di giustizia, i pazienti. Sono stati creati dei fondi per risarcire le persone che hanno subito dei danni consumando quei prodotti e solo negli Usa, nel 1997, le ditte produttrici misero a disposizione 600 milioni di dollari». Come si spiega allora il fatto che in Asia e in America Latina i pazienti curati con il «Factor VIII Concentrate» hanno continuato a morire? «Non bisogna generalizzare – dice il portavoce –. La progressiva sostituzione dei prodotti non sottoposti al trattamento di sterilizzazione ad alte temperature con quelli della nuova generazione è cominciata nel 1984. Poi ci sono stati tempi di attesa legati al fatto che si doveva ottenere la licenza di mercato nei singoli Paesi, ci si doveva coordinare con le autorità sanitarie e fare i necessari controlli. E’ stato un processo inevitabilmente lungo, perché le licenze non si ottengono automaticamente. E per questo si sono verificate discrepanze temporali tra un Paese e l’altro». La Bayer non è la sola azienda che produceva farmaci di questo genere, e a rigore, non è la sola a dover subire accuse. «In Germania erano cinque le ditte che distribuivano questi prodotti – spiegano a Leverkusen -. Anche negli Usa ce n’erano più di una, tra cui la Baxter, e tutte quante avevano lo stesso problema. Il problema si pose quando, di fronte all’insorgenza di casi di Aids nei pazienti trattati con il concentrato, ci si è posti la domanda su come rendere più sicuro il prodotto. Ma fino al 1985 non è stato possibile dimostrare che il virus potesse essere distrutto tramite un trattamento alle alte temperature». L’informazione, sostengono oggi, è stata trasparente: «Abbiamo sempre discusso con le autorità dei Paesi coinvolti e le associazioni degli emofiliaci. Proprio da parte dei consumatori, all’inizio, c’era scetticismo verso il nuovo prodotto, perché temevano che il trattamento ad alta temperatura distruggesse la qualità del farmaco, diminuendone gli effetti». Per la Bayer – che ancora deve superare le conseguenze dello scandalo Lipobay – le accuse riaprono un capitolo triste della storia del gruppo, «ma definitivamente chiuso». Resta l’interrogativo sul perché, proprio oggi, si torna a riparlare di quella storia. «Ma questo dovreste chiederlo al «New York Times», rispondono alla Bayer.