Sembrava profilarsi uno slittamento dei negoziati, ma «i poveri» hanno fatto quadrato. Il sud del Mondo ha alzato la testa e la scorsa notte il summit messicano della World Trade Organization si è chiuso con un fallimento su tutti i fronti. Il naufragio dei burrascosi colloqui proseguiti per cinque giorni nel cuore di Cancun è stata improvvisamente annunciata, intorno alle 23 di domenica sera, dal presidente della Conferenza Luis Ernesto Derbez. Il confronto tra le delegazioni dei 146 Paesi aderenti al Wto si era già arenato davanti alle posizioni di ferma chiusura tenute dagli Usa e dal blocco europeo sui temi agricoli che erano ritenuti il nodo principale. Ma a provocare il collasso definitivo della trattativa tra Paesi ricchi e poveri sono stati i cosiddetti temi di Singapore ovvero concorrenza, investimenti, trasparenza degli appalti e facilitazioni al commercio.
Le maggiori organizzazioni non governative mondiali, in piazza al fianco del popolo new global, hanno accolto con entusiasmo il fallimento della Conferenza ministeriale; un fallimento giudicato da più parti uno strepitoso successo. «A Cancun Davide ha battuto Golia», sintetizza una nota emessa ieri da Legambiente in cui si legge che «per una volta l’arroganza dei potenti ha dovuto piegare la testa davanti alla straordinaria forza espressa dal Movimento, dalle Ong e finalmente anche dalla coalizione, il neonato G23, dei paesi del sud del mondo». «E’ un fiasco del quale siamo molto soddisfatti», si rallegra anche il contadino ribelle dei new global francesi Josè Bovè. «E’ un insuccesso positivo – aggiunge il leader della Confederation Paysanne – perché di fatto garantisce una moratoria sull’agricoltura, i servizi, le regole d’investimento». «Il fallimento di Cancun rappresenta l’attesa fine di un sistema commerciale dominato dall’unico obbiettivo della liberalizzazione», precisa Greenpeace invitando i governi a convocare al più presto una conferenza internazionale che stabilisca le basi per la creazione di un nuovo sistema sostenibile.
Fra gli analisti sono comunque in molti a segnalare i rischi futuri di questa situazione di stallo, specie per le economie dei Paesi in via di sviluppo, e la necessità di procedere con una riforma rapida e radicale della Wto e dei suoi meccanismi decisionali considerati ormai da Medioevo. Tra i primi ad esprimere profondo rammarico per l’esito dei negoziati, il segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan. «Per tutto il tempo ho davvero sperato che riuscissimo a trovare un accordo benefico per i paesi in via di sviluppo. Ma ben poco è stato ottenuto anche se spero che questa non sia la fine della strada». Il disappunto traspare anche dalle parole del presidente della Commissione Ue Romano Prodi che respinge le accuse sulla miopia dimostrata dall’Europa durante i negoziati.
Il fallimento della quinta Conferenza ministeriale, ha commentato Prodi, rappresenta «un’amara delusione per tutti» e «un duro colpo per la stessa Wto che evidentemente non è stata in grado di sostenere il peso del compito affidatole». «Abbiamo perso una preziosa opportunità per contrastare la legge della giungla», gli ha fatto eco il commissario Ue al commercio Pascal Lamy sostenendo che non vi sono vincitori né vinti «ma solo perdenti».
L’ultimo atto è stato, in definitiva, strabiliante per l’arroganza con cui i paesi industrializzati hanno cercato fino all’ultimo di imporre i controversi «temi di Singapore», necessari a scardinare la sovranità dei più deboli nei confronti degli investimenti multinazionali. E ciò nonostante 70 paesi in via di sviluppo avessero rifiutato persino di lanciare a Cancun il negoziato sulla questione.
Le cronache dicono che alla fine l’Unione europea, alla quale la questione stava più a cuore, si era rassegnata a rinunciare a due temi su quattro, su pressione degli Stati uniti decisi a mettere comunque qualcosa nel sacco. Ma giapponesi e coreani sono stati irremovibili, o tutto o niente. Di fronte a tanta protervia la rabbia del Sud è esplosa, travolgendo il «round dello sviluppo». Quello che nel novembre del 2001 fu lanciato dal Qatar con una dichiarazione di dieci pagine che ripeteva per ben 63 volte la parola «sviluppo» e «in sviluppo».
Adesso il negoziatore europeo Pascal Lamy dice che il Wto «resta un’organizzazione medievale», che un sistema in cui 146 paesi devono accordarsi e trovare l’unanimità «non consente all’organizzazione di sopportare il peso del suo compito», che il round negoziale entra «in terapia intensiva». Il suo omologo americano Robert Zoellick non sta invece a elucubrare e, seguendo la strada tracciata dai suoi capi a Washington, ha già calzato l’elemetto che teneva di riserva già da prima del vertice quando, a chi gli paventava l’ipotesi di un fallimento, rispondeva: «Ci terremo i nostri sussidi e andrò in giro ad aprire i mercati» paese per paese, fuori del Wto. Minaccia replicata domenica, sia pure con altri termini.
Spaventa la cecità con cui le grandi potenze affrontano una sconfitta che è innanzitutto la loro. Fa impressione l’incapacità di capire dei profeti di sventura che nei cocci del Wto vedono solo ancor più lacrime e sangue per i poveri del mondo. Il fallimento di Cancun non è quello di Seattle. I quattro anni trascorsi dal `99 hanno cambiato la faccia del mondo, che vede oggi i suoi meccanismi di funzionamento, innanzitutto economico, incepparsi uno dopo l’altro. Una parte consistente del Sud del mondo in Messico si è alleata e ha trovato la forza di alzarsi in piedi per affermare che non saranno i compromessi di rapina sulle risorse, naturali e umane, a far ripartire l’ingranaggio.
L’obiettivo è stato raggiunto grazie al gioco di squadra che per la prima volta si è realizzato tra le Ong, il movimento, e i paesi poveri del sud del mondo che hanno osato sfidare i ricatti economici di Stati uniti e Ue anche perché consapevoli di poter contare sull’influenza che la societa’ civile e´ormai in grado di esercitare sulle opinioni pubbliche occidentali.