Il GATS è l’Accordo Generale sul Commercio dei Servizi (General Agreement on Trade in Services) introdotto nel 1995 con l’entrata in vigore degli accordi presi dai paesi aderenti alla WTO (World Trade Organization) nel corso del cosiddetto Uruguay Round. Per capire di che cosa si tratta è bene prendere a
riferimento le informazioni fornite dalla stessa WTO nel documento “GATS: objectives, coverage and disciplines” disponibile sul suo sito web www.wto.org. Gli scopi dichiarati di questo accordo, molto simili a quelli del suo “fratello” GATT che riguarda il commercio dei beni, sono i seguenti : 1) “creare un sistema credibile ed affidabile di regole per il commercio
internazionale”; 2) “assicurare un sistema giusto ed equo per tutti i partecipanti secondo il principio di non discriminazione; 3) “stimolare l’attività economica”; 4) “stimolare il commercio e lo sviluppo attraverso la liberalizzazione progressiva dei mercati dei servizi”. Nella lettura dei documenti del GATS sembra tuttavia emergere una reductio ad unum di questa molteplicità di obiettivi, tra i quali la liberalizzazione progressiva dei mercati prende nettamente il sopravvento. Secondo un’applicazione standard della teoria economica dominante tale liberalizzazione sarebbe infatti in grado di stimolare l’attività economica, di creare mercati competitivi in cui i partecipanti (cioé le imprese) sono tra loro su un piano di parità concorrenziale (e quindi non discriminate) e in cui le regole sono quelle poche e semplici che caratterizzano l’attività dei mercati. Vedremo tra poco quanto, secondo la stessa teoria economica
dominante, le cose non siano così semplici ed immediate. Tuttavia, prima di addentrarci in questa disamina, cerchiamo di capire perché il GATS rappresenta la nuova frontiera della globalizzazione. Il dato fondamentale, citato dalla stessa WTO, è che “mentre i servizi rappresentano circa il 60% della produzione e dell’occupazione totali nel mondo, essi rappresentano solo 1/5 del commercio totale”. Tuttavia, l’esigenza di accordi internazionali sui servizi vi sarebbe comunque in quanto questa dimensione essenzialmente domestica apparterrebbe al passato e “molte attività che sono state tradizionalmente considerate nazionali stanno diventando sempre più mobili a livello internazionale”. Tale trasformazione è legata, secondo la WTO, a fattori quali “le nuove tecnologie”, “l’apertura di mercati prima riservati al monopolio e la de-regolamentazione di altri” ed infine, “al cambiamento nelle preferenze dei consumatori”. Tutto ciò renderebbe necessario il GATS e, ne sarebbe, quindi, la causa. Tuttavia, non è difficile capirlo, il GATS è anche lo strumento che tende a generare e ad amplificare tali fattori, primi fra tutti l’apertura e la de-regolamentazione dei mercati nazionali dei servizi. Il GATS riguarda pressapoco 140 paesi, ossia la quasi totalità dell’economia mondiale e, in linea di principio, le misure contenute nell’accordo riguardano tutte le tipologie di servizi. Le eccezioni a questa omnicomprensitivà dell’ambito applicativo dell’accordo sono due, e, mentre una si riferisce specificatamente ai servizi aerei, l’altra consiste nell’inapplicabilità dello stesso ai “servizi forniti nell’esercizio di un’autorità pubblica (governmental authority)”. Nel citato documento si chiarisce che il riferimento è a “servizi che non sono forniti né su basi commerciali né in competizione con altri fornitori”. Gli esempi riportati sono “gli schemi di sicurezza sociale (cioé le pensioni) ed ogni altro servizio pubblico, come la sanità o l’istruzione, che siano forniti a condizioni non di mercato”. Se le pensioni, la sanità e l’istruzione fossero effettivamente sottratti all’applicazione del GATS, come potrebbe risultare da una lettura superficiale di questo passaggio, l’allarme sociale che questi destano sarebbe notevolmente ridimensionato. Purtroppo non è affatto così, nemmeno nell’Unione Europea e ciò dipende dal fatto che in pressoché tutti i paesi dell’Unione vi sono pezzi dello stato sociale che sono già “forniti a condizioni di mercato” e a cui quindi il GATS si applica. Per quanto concerne le pensioni, sono sempre più numerosi gli stati che
prevedono sistemi di previdenza complementare accanto (per ora) a sistemi pensionistici pubblici. I sistemi di previdenza complementare sono normalmente gestiti attraverso il mercato finanziario e quindi la liberalizzazione dei servizi finanziari va ad impattare anche sui sistemi pensionistici. Nel caso di paesi come l’Italia, dove il ruolo in borsa dei fondi pensionistici è ancora limitato, aumentare l’accessibilità ai mercati finanziari significa anche aumentare le pressioni sulla messa a disposizione del TFR per la previdenza integrativa. Per quanto riguarda l’istruzione, l’ambito nel quale la liberalizzazione è già molto forte è quello che la WTO definisce dell’istruzione di terzo livello, ovvero universitaria, che è caratterizzato dalla presenza di soggetti privati, seppure con diversa intensità, in tutti i paesi europei. Si tratta di un settore molto promettente anche per gli operatori non europei e non a caso il governo degli Stati Uniti ha formulato, con sua apposita comunicazione alla WTO del 18/12/2000, una proposta di liberalizzazione che richiede ai diversi stati di eliminare gli ostacoli alla libera concorrenza in questo settore. Tra questi ostacoli vi sono le autorizzazioni “all’istituzione di sedi sussidiarie” di organizzazioni estere nonché quelle tendenti a “qualificare le istituzioni che possono concedere titoli (degrees)”. Tra le norme da eliminare, sempre secondo la proposta USA, figurano anche le “misure che obbligano ad utilizzare partner locali” nell’erogazione dei servizi o che vincolano “la creazione di joint-ventures su basi volontarie” alla concessione di permessi amministrativi. Ancora, il settore sarebbe caratterizzato da un “trattamento fiscale sfavorevole” e da una politica dei sussidi che risulterebbe “non chiara né trasparente”. Tutti questi (cosiddetti) ostacoli, e molti altri ancora, dovrebbero essere eliminati, secondo il governo USA, per liberalizzare il settore dell’istruzione universitaria. Infine, anche la sanità, settore tuttora caratterizzato da una predominante presenza pubblica almeno in Europa, è soggetta a crescenti processi di privatizzazione motivati in primis, nei paesi europei, dall’esigenza di ridurre la spesa pubblica per rispettare le condizioni imposte dal Patto di stabilità europeo. Questo aspetto è stato recentemente ricordato in un rapporto redatto dalla Deloitte e Touche, incaricata dall’Unione Europea di monitorare la conoscenza e le esigenze di cambiamento del GATS espresse dalle principali imprese e associazioni professionali operanti nei diversi settori, tra cui, appunto quello dei servizi sanitari. In sintesi, poiché il GATS si applica a tutti i settori nei quali vi sia una qualche forma di fornitura dei servizi a condizioni di mercato, esso si applica a pressoché tutti i servizi, inclusi quelli dello stato sociale. L’ulteriore liberalizzazione che il GATS in questo modo induce costituisce a sua volta un incentivo a procedere all’ampliamento dell’apertura al mercato, in un processo che in qualche modo si auto-alimenta. Ciò che stupisce e spaventa dell’architettura e della logica del GATS è il suo grado di integralismo teorico. L’insieme dei servizi viene trattato come omogeneo e quindi assoggettato ad un corpo di obblighi definiti a prescindere dalla specificità dei servizi, ma lasciando, in qualche caso, un relativo grado di libertà agli stati membri. Gli obblighi a cui gli stati membri si assoggettano corrispondono ai tre principi essenziali del GATS: i) il principio della nazione favorita (MFN, most favoured nation);
ii) il principio dell’accesso al mercato (market access); iii) il principio del trattamento nazionale (national treatment). Il principio della nazione favorita è di carattere generale ovvero soggetto
a poche limitazioni. Esso afferma che gli stati membri sono obbligati ad estendere immediatamente ed incondizionatamente ai fornitori di servizi di qualsiasi altro stato membro i benefici derivanti da qualsiasi accordo privilegiato che abbiano con qualsiasi altro paese (sia esso membro o meno del GATS). Si è trattato dello strumento attraverso cui sono stati progressivamente estesi ovvero eliminati i regimi favorevoli normalmente concessi ai paesi in via di sviluppo, in particolare, dagli stati ex-coloniali.
Il principio del libero accesso al mercato nonché quello del trattamento nazionale, ovvero della non discriminazione nei confronti dei fornitori di
servizi stranieri e a favore degli operatori nazionali, sono, nell’ambito del GATS, di carattere specifico, ovvero possono assumere un contenuto
diverso a seconda del settore cui si applicano. Questo lascia, in teoria, un certo margine di manovra ai singoli stati. Attualmente il grado di
applicazione di questi principi ai diversi settori è variabile e, secondo la WTO, “mentre alcuni Stati applicano il principio del libero accesso e del
trattamento nazionale solo a pochi servizi, altri hanno applicato questi principi a quasi 120 sui 160 servizi” oggetto degli accordi. Scopo del nuovo
round del GATS, che dovrebbe concludersi a Cancun, è precisamente l’estensione oggettiva e soggettiva dei servizi cui si applicano i principi
dell’accesso al mercato e del trattamento nazionale. Ma qual è la base teorica di questi principi? Tenderei anche in questo caso a definire una priorità del principio dell’accesso sul principio del trattamento nazionale, nel senso che, una
volta realizzato il principio dell’accesso al mercato, ogni carattere distinguente la nazionalità delle imprese dovrebbe su un piano teorico
naturalmente venire meno. Infatti nella teoria economica dominante, che fornisce in buona parte il sostrato su cui la filosofia del GATS fa leva,
l’impresa, per così dire, non ha nazione. Ciò non toglie che a livello pratico le discriminazioni a favore delle imprese nazionali possano avere un
peso rilevante, ma qui mi interessa soffermarmi sulle giustificazioni teoriche degli obiettivi che il GATS si pone. Ed è indubbio che da un punto
di vista teorico il libero accesso al mercato, ovvero la realizzazione della contendibilità dei mercati, sia il passo necessario per realizzare l’apertura alla concorrenza nel senso pieno del termine. La teoria economica dominante, ovvero la teoria economica neoclassica, nata negli ultimi decenni del XIX secolo, ha prodotto due teoremi, detti teoremi
fondamentali dell’economia del benessere, le cui implicazioni sono piuttosto amplie. Mi vorrei soffermare in particolare sul primo di questi teoremi che dice più o meno questo: a certe condizioni, un’economia di piena concorrenza
è in grado di raggiungere la condizione di massima efficienza. Questo teorema non distingue, in linea di principio, tra i diversi settori economici ed appare quindi fornire naturalmente la giustificazione teorica ad un accordo omnicomprensivo come il GATS. Tuttavia vale la pena di soffermarsi sulle condizioni a cui è subordinata la validità del teorema nonché sull’idea di efficienza in esso contenuta. In primo luogo va ricordata la condizione di piena libertà di scelta che è un presupposto fondamentale per poter parlare della piena concorrenza come la migliore delle soluzioni possibili del problema economico. La libertà di scelta è tanto più forte quanto più essa è esercitata in modo consapevole, ovvero quanto più essa è esercitata da un consumatore informato sui diversi servizi tra cui deve scegliere. Ma quale livello di informazione, e, conseguentemente, quale libertà può esserci nella scelta di un determinato medico o di una determinata scuola ? Come può il singolo inviduo essere in grado di capire il livello di preparazione e di adeguatezza di una determinata struttura sanitaria, ovvero la qualità del servizio fornita da una determinata istituzione scolastica ? E’ vero che i nostri tempi sono caratterizzati dalla pluralità di fonti informative: ma quanto è diffusa la capacità di elaborare queste informazioni che da ogni parte provengono ? E’ plausibile che la libertà di scelta sia ad appannaggio delle elites che detengono le informazioni e soprattutto la capacità di elaborarle, mentre si risolva in un mero slogan per la maggioranza della popolazione. In secondo luogo va menzionato il fatto che, sempre rimanendo all’interno della teoria economica dominante, è possibile dimostrare che un’economia di piena concorrenza non è in grado di raggiungere l’efficienza se vi sono delle esternalità, ovvero se lo scambio che si effettua sul mercato ha delle
conseguenze positive o negative su soggetti non coinvolti nella transazione e che non si riflettono sul prezzo. La definizione sembra alquanto astrusa,
ma essa si concretizza facilmente pensando che l’esempio principale di esternalità negativa è costituito dall’inquinamento (a meno che l’impresa
non debba pagare delle tasse proporzionali all’inquinamento prodotto). Molti servizi, per esempio i trasporti, sono caratterizzati da esternalità ambientali rilevanti per cui l’apertura al mercato in questi casi non è affatto la soluzione migliore. Altri servizi sono determinanti nella
ricerca delle tecnologie che possono ridurre gli impatti ambientali: pensiamo per esempio al settore energetico e agli impatti ambientali di una
determinata politica energetica. In terzo luogo bisogna ricordare che la piena concorrenza non è
necessariamente e sempre l’assetto più efficiente del sistema produttivo, anche secondo la teoria dominante. Esistono, infatti, delle situazioni in
cui è naturalmente preferibile non moltiplicare l’offerta produttiva, perché ciò comporterebbe un inutile spreco di risorse. Pensiamo, per esempio, alla liberalizzazione del settore dei trasporti su ferrovia: per quale ragione dovrebbe essere più efficiente consentire la concorrenza quando ciò
implicherebbe la duplicazione di strutture di trasporto e di gestione ? Inoltre tale duplicazione comporta spesso una diminuzione della qualità
dell’offerta. Nel Regno Unito c’è un sistema ferroviario con una pluralità di offerenti che ha comportato, tra le principali conseguenze, un aumento dei prezzi nonché degli incidenti e della confusione complessiva del sistema stesso.
In quarto luogo andrebbe almeno menzionato il fatto che la visione di un’economia di piena concorrenza astrae totalmente dalle concrete condizioni in cui opera l’istituzione denominata “impresa”. L’idea che l’assetto
naturale sia la piena concorrenza e che invece oligopoli e monopoli costituiscano le eccezioni è una semplificazione che non ha alcuna aderenza
alla realtà. Molti dei settori che il GATS vorrebbe liberalizzare sono caratterizzati proprio da una forte concentrazione delle quote di mercato nelle mani di pochi soggetti, e quindi la teoria economica dominante non è più utilizzabile per giustificare tale liberalizzazione, in quanto gli oligopoli non consentono alcun beneficio ai consumatori. Pensiamo, per esempio, al mercato italiano dei servizi finanziari ed assicurativi, che pure essendo soggetto alla liberalizzazione non ha comportato alcuna concreta diminuzione dei prezzi. Più in generale, in Europa esiste una forte tendenza alla concentrazione manifestata dall’aumento delle dimensioni medie delle imprese, e questo vale, in particolare, per servizi quali quelli energetici, per le telecomunicazioni e per i servizi di pubblica utilità (www.mbres.it). Infine, vale la pena di chiedersi qual è la nozione di efficienza postulata dal primo teorema dell’economia del benessere. Si tratta della cosiddetta efficienza paretiana, ovvero del principio di efficienza formulato da Vilfredo Pareto, un sociologo elitista di inizio secolo. Secondo questo
principio, un determinato equilibrio economico è efficiente se esso non può essere mutato senza peggiorare la condizione di almeno un individuo. Il
punto fondamentale è che nell’idea di Pareto tutti gli individui sono uguali e non è possibile pesare la condizione di un individuo sulla base, per
esempio, del suo reddito. In altri termini, il criterio di efficienza che guida la teoria del mercato è intrinsecamente e dichiaratamente insensibile
rispetto a qualsiasi dimensione della diseguaglianza. Tutto ciò consente di dubitare fortemente dell’approccio omnicomprensivo del
GATS pur rimanendo nell’ambito della teoria economica dominante. La contro-obiezione più forte che i sostenitori del GATS potrebbero formulare è che alcune delle osservazioni critiche che si sono finora esposte possono essere annullate da specifiche regolamentazioni poste in essere dagli stati nazionali. Per esempio, gli standards ambientali o quelli di sicurezza, o ancora un’efficace legislazione anti-trust, possono essere mantenuti o creati ex-novo a livello nazionale ed in modo simile possono essere incorporate nelle regolamentazioni nazionali determinate esigenze redistributive. Ora, pur ammettendo che questo sia vero in linea di principio, dobbiamo chiederci quanto sia realistico. La liberalizzazione porta con sé sempre anche una domanda di semplificazione delle normative e di de-regolamentazione (lo si è visto con chiarezza nel documento USA sull’istruzione universitaria). Inoltre tale semplificazione è implicita anche nel principio del trattamento nazionale, in quanto si potrebbe argomentare che una regolamentazione massiccia, come quella necessaria per stabilire standard ambientali o di sicurezza, favorisce gli operatori nazionali che meglio conoscono i sistemi giuridici ed amministrativi del proprio paese. E’ quindi credibile pensare che alla liberalizzazione si accompagni la definizione di nuove regole ? Inoltre, consideriamo la situazione degli stati europei, per i quali continua a valere il Patto di stabilità che impone rigidi vincoli al rapporto tra disavanzo (più precisamente, indebitamento netto) e Pil e tra debito pubblico e Pil. Poiché i tre maggiori paesi dell’Unione (Germania, Francia, Italia) hanno tutti enormi problemi nel rispettare questi vincoli, non è forse realistico pensare che utilizzino la liberalizzazione di determinati settori al solo scopo di ridurre la spesa pubblica, anche
laddove, come nel caso dei servizi dello stato sociale, la liberalizzazione sia del tutto inefficiente per la maggior parte dei cittadini ? Infine, considerando che alcuni dei servizi interessati dalla
liberalizzazione nell’attuale quadro dei rapporti di forza tra multinazionali e stati nazionali quanto è credibile che questi ultimi siano in grado di imporre delle regole alle prime, una volta che queste hanno
potuto avere accesso al mercato ? Fino ad ora abbiamo sviluppato alcune osservazioni critiche rimanendo nell’ambito della teoria economica dominante. Tuttavia ciò non è probabilmente sufficiente, e si deve andare al di là di questo approccio che è incapace di rispondere all’insieme delle esigenze che sono poste dallo sviluppo economico. Lo sforzo che dobbiamo fare, inoltre, è quello di proporre strategie alternative alla liberalizzazione, fondando tali proposte su approcci che vadano al di là dei limiti angusti della teoria economica dominante. Per quali ragioni ci opponiamo alla liberalizzazione e alla privatizzazione ? Quale tipo di economia pubblica abbiamo in mente ? Si tratta, ovviamente, di domande molto rilevanti e alle quali abbiamo
appena iniziato a rispondere. Proverò semplicemente ad indicare alcuni elementi che mi sembrano poter essere utili; dò per scontato che la difesa dell’impresa pubblica come luogo di potere e di distribuzione di prebende non rientri tra i nostri scopi. Fatalmente i miei esempi avranno a riferimento il contesto italiano. Io credo che tra i primi obiettivi che una nuova economia pubblica dovrebbe porsi vi è sicuramente l’ampliamento dell’occupazione e il soddisfacimento dei bisogni che il mercato non è in grado di soddisfare. Giorgio Lunghini (ne ,”L’età dello spreco-Disoccupazione e bisogni sociali”, Bollati Boringhieri, 1995) ha messo in evidenza che nelle società contemporanee esistono domande sociali insoddisfatte a cui il mercato non è in grado di rispondere. Vi è una domanda di cura e di assistenza personale, una domanda di tutela ambientale e di salvaguardia del patrimonio artistico e naturale, una domanda di intermediazione culturale di fronte alle migrazioni, insomma una domanda di lavori socialmente utili nel senso pieno del termine a cui il mercato non risponde e a cui lo stato, attualmente, si sottrae.
D’altraparte, a fronte di questi bisogni insoddisfatti, vi sono milioni di persone disoccupate, ed è a questo proposito che Lunghini ha parlato di “età
dello spreco”. La nuova economia pubblica deve occuparsi della risposta a queste domande sociali e deve affrontare il problema delle forme in cui
farlo. C’è una delicata questione concernente l’utilizzo del privato sociale al solo scopo di ridurre i costi e di introdurre dosi massiccie di precarietà, in particolare nei servizi sociali. Una nuova economia pubblica dovrebbe ripensare a questo e, pur non potendo prescindere da forme di organizzazione ed erogazione dei servizi che passino attraverso le aggregazioni sociali intermedie, dovrebbe rispondere alle domande sociali senza generare una rincorsa al ribasso nella qualità del lavoro e delle prestazioni erogate. Inoltre la nuova economia pubblica dovrebbe porsi l’obiettivo di determinare, anche attraverso la produzione pubblica diretta, livelli e tipologie di produzione che siano sostenibili nel lungo periodo. La liberalizzazione di settori strategici quali quello energetico o quello dei trasporti ha un impatto di lungo periodo su alcuni processi naturali vitali e sullo stock di capitale naturale. Ma recenti studi di economia ecologica ci dicono che il mercato è intrinsecamente inadatto a riflettere, tramite il sistema dei prezzi, l’esaurimento di questo stock, ed è quindi incapace di includere la sostenibilità ambientale tra i suoi obiettivi. In generale, il mercato ragiona sul breve periodo ed anche quando viene indotto (dall’esterno) a tener conto della dimensione inter-temporale è in grado di farlo solo in modo semplicistico, inadatto a cogliere la complessità delle relazioni tra sistema economico e sistema ambientale. Il mercato è intrinsecamente semplicistico perché nel suo ambito tutto viene convogliato in un semplice (e potente) indicatore monetario, quello dei prezzi, ma la realtà è ben più complessa. E non è pensabile che una semplice regolamentazione pubblica del mercato possa cogliere compiutamente tale complessità. La soluzione al problema della sostenibilità ambientale richiede politiche pubbliche nel senso pieno ed alto del termine, richiede un radicale ripensamento delle politiche di sviluppo, delle politiche di ricerca ed utilizzo delle materie prime e delle fonti di energie, tutte cose incompatibili con la liberalizzazione. La liberalizzazione consente, nella migliore delle ipotesi, la massimizzazione dell’efficienza di breve periodo ma non può costituire una buona ricetta laddove è necessario pensare allo sviluppo di medio e lungo periodo. Perché questi obiettivi siano credibili la nuova economia pubblica ha bisogno anche di una nuova politica delle risorse finanziarie ovvero di nuove politiche di tassazione. Si tratta di spostare davvero il carico fiscale dal lavoro al capitale, di fermare la concorrenza fiscale tra gli stati europei nella tassazione dei risparmi e dei profitti e presumibilmente di inserire delle aliquote di prelievo minimo effettivo sui profitti e sulle rendite in modo da limitare gli effetti dell’elusione e dell’evasione fiscale su scala internazionale. A tutto questo occorrerà pensare, dopo aver fermato il Gats.