L’aspettativa di vita media per una persona tossicodipendente non è superiore ai 40 anni. Non si muore solo per overdose, ma anche per diverse malattie conseguenti all’assunzione di sostanze e non ultimo anche per molti incidenti. Una riflessione di Leopoldo Grosso, vicepresidente del Gruppo Abele. Negli anni ‘80 sul consumo di eroina per via endovenosa si è innestato l’Aids. La Lila (Lega italiana lotta all’Aids) ha fatto un tragico conto: 24mila sono le persone tossicodipendenti morte da allora per Hiv. Ad esse bisogna aggiungerne almeno altre 30mila decedute per overdose. Sono ormai 35 anni che in Italia si è affermato il fenomeno della tossicodipendenza. I ragazzi che iniziarono alla fine degli anni ’60 e che sono sopravvissuti sono ormai più che cinquantenni. Il narcotraffico intuì molto presto l’enorme profitto che avrebbe potuto ricavare impadronendosi del bussines della droga.
Già negli anni ’70, attraverso una capillare rete criminale l’eroina ha invaso i quartieri di tutte le città italiane mettendo a repentaglio la vita di decine di migliaia di giovani.
In Italia è cresciuta negli anni la risposta al fenomeno. A seguito della prima (1975) e della seconda (1990) legge sulla tossicodipendenza si è creato un sistema di servizi pubblici e del privato sociale che è considerato con molto interesse sul piano europeo. La nascita di molte comunità, che oggi sono in grado di accogliere quasi 15mila persone in percorsi impegnativi di emancipazione dalla dipendenza costituiscono un segno tangibile del fiorire delle iniziative. In virtù dell’aiuto ricevuto molte persone tossicodipendenti sono riuscite venire a capo del loro problema. La comunità ne è stato uno strumento importante ma non l’unico. E’ bene ricordare che per sua natura il percorso di comunità è molto selettivo. I tanti che non vi accedono, quelli che rinunciano o ricadono nell’uso di droga anche a percorso terminato è importante che non vengano abbandonati. Molti di loro sono risucchiati dalla deriva di una emarginazione progressiva o diventano facile preda della criminalità. Purtroppo il carcere rimane un impietoso indicatore della insufficienza degli sforzi che si conducono: più di un terzo della popolazione carceraria è detenuta per problemi legati all’uso di droga. Molti di loro entrano ed escono ripetutamente dalla prigione vittime di una doppia ricaduta, prima del consumo di droga e poi nella delinquenza come mezzo per procurarsela. Per spezzare questa catena bisogna investire di più sul collegamento dentro e fuori carcere, su una maggiore fruizione delle pene alternative alla detenzione, ispirate ai criteri di riparazione del danno recato e del reinserimento sociale. Troppe tra le persone tossicodipendenti più emarginate finiscono per affollare il già numeroso popolo dei senza dimora. Vivono in strada e lottano per la loro sopravvivenza con mezzi non sempre leciti. Chi abita la strada oggi ha sempre meno il volto del barbone, ha un’età più giovane e si infittisce la presenza femminile. Alcuni sviluppano problematiche psichiatriche, altri sono stranieri senza permesso di soggiorno e senza diritti che trovano nell’alcool e nelle sostanze stupefacenti un’illusoria consolazione alla delusione dei loro sogni migratori. Hanno bisogno di tutto: da un riparo per dormire ad un posto per lavarsi al cibo caldo. Contrastare l’emarginazione è un intervento di importanza fondamentale. L’integrazione sociale rappresenta una sfida importante per le amministrazioni delle nostre città, per il sistema dei servizi alle persone, per le nostre associazioni e per il mondo del volontariato. Non è solo questione di un doveroso aiuto alle persone. E’ anche la modalità più intelligente per ridurre problemi di ordine pubblico e di sanità pubblica.
La droga non sempre produce disperazione spesso si annida in comportamenti di mero consumo impliciti in una esagerata e distorta concezione del divertimento. I ragazzi che oggi assumono ecstasy, anfetamine e “tirano” cocaina non pensano di assumere sostanze pericolose e correre rischi. Per loro il “drogato” è l’eroinomane che barcolla in mezzo a una strada, chiede l’elemosina o è costretto a rubare. Tra i rischi connessi al consumo delle nuove droghe uno dei più gravi, insieme al più noto degli incidenti stradali, riguarda il fatto che le sostanze di sintesi che vengono prodotte nei laboratori clandestini non si sa cosa contengano esattamente. E’ stato invano più volte chiesto di poter direttamente e velocemente analizzare le pastiglie nei luoghi in cui vengono consumate. Oggi quando un ragazzo, in conseguenza di qualche assunzione, finisce al pronto soccorso i medici non sanno esattamente che cosa abbia ingerito. Se non si conosce il “veleno” è più difficile trovare rimedio e a volte passa troppo tempo per poter intervenire efficacemente. Le nuove droghe rilanciano la grande sfida educativa, a cui tutti siamo chiamati con l’obiettivo di accompagnare i ragazzi a cogliere un diverso senso della loro collocazione nella società ed è dovere degli adulti incrementare le opportunità attraverso le quali i giovani possano fare scelte più impegnate e responsabili.
La seria politica di lotta alla droga, che non ceda a facili demagogismi ha bisogno di appoggiarsi su quattro pilastri, tutti indispensabili e tra loro interagenti:
Si dice che la riduzione del danno è troppo poco. Quel poco è sempre meglio e più del nulla, del vuoto e dell’abbandono che si può creare quando i soli principi non ci fanno incontrare la persona. I principi non dimentichiamolo possono anche condannare ed uccidere. E’ contro questa eventualità che dobbiamo muoverci per una etica della possibilità e della giustizia, intesa come corresponsabilità, contro una sola morale rigida fatta di così tanti principi e norme da rendere difficile l’incontro con le persone. Sentiamo ripetere da più parti che bisogna condannare le sostanze e le droghe senza ambiguità e senza tentennamenti. Attenzione però che una eccessiva enfasi sulla sostanza droga espressa sempre al singolare senza specificare a quale sostanza si riferisca, non dimentichi la persona. Noi dobbiamo guardare alla dipendenza a partire dalla persona, non dalla sostanza. E’ la persona il metro di giudizio, il riferimento vincolante della valutazione, una persona in continua trasformazione. Non prendere in considerazione queste differenze, non rispettare le molteplici diversità che compongono questo orizzonte e non distinguere fenomeni distinti tra loro, è l’inizio della confusione. Non ci può essere una strada per tutti: una sola strada per tutti è un vicolo cieco.
Vogliono che noi diciamo “no alla droga”. Lo abbiamo sempre detto. Ma vogliamo includere in quel “no” una condanna delle politiche miopi che creano abbandoni. Noi preferiamo il “sì” ad una complessità che ci chiede e ci impone una serena fedeltà alla persona.
Leopoldo Grosso
vicepresidente Gruppo Abele