Suscita perplessità l’enfasi mediatica sull’influenza dei polli, una malattia ben nota per i danni al settore zootecnico ed i pericoli, reali e potenziali, per l’uomo. Lo stesso allarme mondiale lanciato dall’OMS appare a molti specialisti oggettivamente eccessivo rispetto all’entità del rischio. Tanto da insinuare il sospetto che ci sia sotto qualcosa che trascende l’aspetto sanitario del problema e miri a distogliere l’attenzione da altre questioni. Intanto va chiarito che non è la prima volta che in Estremo Oriente si affronta un’influenza aviare sostenuta da un virus ad alta patogenicità. Un agente morbigeno che, oltre a provocare stragi negli allevamenti con una mortalità che può arrivare al 100%, si può trasmettere sporadicamente all’uomo, superando la barriera di specie. Era già successo nel 1997 ad Hong Kong, dove la trasmissione all’uomo, con decesso di due persone, aveva portato alla drastica decisione di distruggere l’intero patrimonio avicolo, stimato in oltre un milione capi. Nel 2000 in Olanda era morto un veterinario contagiato dal virus influenzale dei polli, mentre una ottantina di altri addetti agli allevamenti avicoli si erano ammalati in forma più lieve. Sempre a cavallo del 2000 nel Nord Italia, con epicentro in Lombardia e Veneto, imperversò una gravissima epidemia sostenuta da un virus ad alta patogenicità che mise in ginocchio la nostra avicoltura senza tuttavia causare vittime umane. Per domarla fu necessario eliminare 16 milioni di polli e tacchini, con risarcimenti, per danni diretti e indiretti, costati all’erario più di mille miliardi di vecchie lire. Eppure i giornali ne parlarono pochissimo, confinando le notizie nelle pagine specializzate.
Oggi invece la possibilità teorica di riassorbimento genetico (genetic shift) tra i virus dell’influenza umana ed aviare, entrambi di tipo A, con produzione di una nuova variante che potrebbe scatenare una pandemia, sta suscitando apprensioni e timori esternati dagli organi di informazione ad un livello mai toccato in passato. E’ vero che questo virus aviare (H5N1) ha già provocato, con passaggio diretto pollo-uomo, una ventina di morti: ma non risulta per ora dimostrata la trasmissione interumana. Quindi il pericolo rimane strettamente confinato tra gli addetti ai lavori e il sistema più sicuro per preservare uomini e animali rimane l’abbattimento totale di tutti i capi degli allevamenti infetti. Un sistema di intervento che in Tailanda, Vietnam e Cina si scontra con problemi economici e organizzativi che ne rendono difficilissima la pratica attuazione. Basti pensare che in quelle regioni il patrimonio avicolo sensibile al virus è stimato intorno ai 7 miliardi di capi, polverizzati in milioni di allevamenti su un territorio sterminato. In più c’è il problema degli uccelli selvatici, migratori e stanziali, serbatoi permanenti di tutti i 15 sottotipi del virus influenzale A.
Classico esempio, le anatre mantengono il virus nel proprio intestino senza manifestare sintomi, e lo eliminano ad alta concentrazione, contaminando in particolare le acque. Da tenere ben presente anche il ruolo del suino, specie capace di albergare contemporaneamente i virus influenzali umano ed aviare e quindi in grado di fungere da contenitore biologico (mixing vessel) per un possibile scambio di frammenti di genoma tra i due patogeni. Va infine sottolineato che il clamore suscitato dall’epidemia influenzale orientale viene letta da alcuni commentatori anche in chiave economica. Si tratterebbe, secondo questa interpretazione, di una precisa volontà di demonizzare i prodotti del Sud Est asiatico, un concorrente aggressivamente lanciato alla conquista dei nostri mercati. A sostegno di questa tesi si cita lo scarso ed episodico rilievo riservato dai media ai drammatici problemi dell’Africa (Aids, tubercolosi, malaria) che mietono ogni anno milioni di vittime. Meno credito viene invece concesso all’ipotesi, pur non remota, che la ricombinazione tra virus influenzali umani e aviari possa avvenire in un laboratorio clandestino per finalità bioterroristiche. Insomma, le malattie infettive che dieci anni fa parevano relegate alla storia della medicina, hanno riacquistato un ruolo di primo piano, a conferma dell’aforisma eracliteo “Nulla è permanente eccetto il cambiamento”.