Evitare il salvataggio è un’arte e forse è possibile…

EDITORIALE ASSOCIAZIONE NADIR ONLUS – Riprendiamo un articolo apparso sul Wall Street Journal del 3 Maggio 2006 (sotto riportato) e lo prendiamo come spunto per ipotizzare possibili strategie di terapia oggi forse sentite come “anti-dogmatiche” nel nostro paese, ma che tuttavia, come emerge nell’articolo, è importante considerare.

Il problema dei pazienti multiresistenti (ossia per i quali i farmaci oggi a disposizione in commercio non sono più funzionanti) è certamente tanto serio quanto non trascurabile. Quanti di noi hanno avuto amici con HIV/AIDS che non ce l’hanno fatta proprio perché l’armamentario delle terapie antiretrovirali disponibili non era sufficiente ? Quanti medici hanno giorno per giorno avuto a che fare con pazienti ai quali non era possibile dire:”non preoccuparti, c’è una nuova strategia” oppure:”c’è un nuovo farmaco molto promettente in arrivo….”.

Questa è la ragione per cui gli attivisti nel campo HIV/AIDS compiono giorno per giorno un lavoro costante di monitoraggio dei nuovi farmaci in sviluppo e/o delle nuove strategie terapeutiche e cercano improrogabilmente di portarli al più presto in Italia attraverso studi clinici adeguati e attraverso programmi di accesso precoce e/o allargato ai nuovi ritrovati della scienza. Cosa significa “adeguati” ? Significa tentare di bilanciare la necessità di avere nuovi farmaci in numero sufficiente per chi ne ha bisogno, considerando sempre l’importante quanto oscuro aspetto dell’evento avverso, intrinseco ad ogni nuova molecola in sviluppo.

Questa è anche la ragione per cui gli attivisti da tempo denunciano come la legislazione vigente nel nostro paese in merito agli “accessi precoci e/o allargati” alle nuove specialità medicinali salvavita (e questo è certamente il caso dell’AIDS) sia fortemente inadeguata rispetto alle reali necessità della patologia. Una costellazione di comitati etici si trova a dover valutare, spesso senza adeguata competenza e formazione, protocolli internazionali “combattuti ed espugnati” alle case farmaceutiche da parte degli attivisti italiani ed europei. Comitati etici che a volte addicono pure motivazioni “burocratiche” per bocciare importanti protocolli salvavita, andando così ben oltre quell’alone di eticità che dovrebbero invece difendere e perpetuare. Su questo la nostra Agenzia Italiana del Farmaco, più volte da noi interpellata, la quale dovrebbe coordinare un’azione di omogenizzazione sul territorio e di formazione adeguata ai comitati etici, sembra essere decisamente sorda.

Per concludere questa parentesi, è bene citare come talvolta anche le procedure a livello europeo siano onestamente più lente rispetto a quelle americane, in particolare sulle nuove formulazioni di molecole già collaudate, su nuove co-formulazioni e su farmaci innovativi che comunque sono inizialmente destinati a ricevere un’approvazione condizionata ai soli pazienti pre-trattati, quindi che potenzialmente ne hanno necessità.

Ma torniamo alle considerazioni dell’articolo del Wall Street Journal, prendendo proprio spunto dal fatto che esiste una casistica numerosa nel nostro paese di persone in necessità terapeutica. Sembra un po’ la scoperta dell’uovo di colombo quella espressa nell’articolo, ossia che non ha significato aggiungere un solo farmaco attivo ad una terapia nella quale gli altri farmaci, per documentata resistenza, non lo sono più. E’ una considerazione che è stata però fatta alla luce di un periodo storico nel quale, non avendo a disposizione molte armi, si tentava di tutto, tra cui anche la fallimentare strategia della mono-intensificazione in contesto di salvataggio. Oggi sappiamo tutti come sia necessario avere più molecole attive (possibilmente tre) per costruire regimi funzionanti tali da garantire una soppressione virale plasmatica ed un conseguente, ed auspicabile, recupero immunologico.

Ma ciò che ci ha colpito di più dell’articolo è la denuncia di questo “serbatoio” di pazienti multiresistenti ed in fallimento ed il concetto dello “switch aggressivo”. E’ chiaro che se si parte da una situazione di “fallimenti storici e sequenziali” di terapie anche subottimali, dovuti alla storia clinica del paziente, quello che si deve tentare di fare è costruire un regime con più molecole attive.

In modo provocatorio ci chiediamo invece se non sia ora, proprio alla luce del fatto che non è ipotizzabile prevedere altre 15/20 nuove molecole sul mercato nei prossimi 5/8 anni, tentare, pur nella consapevolezza della presenza degli effetti collaterali, di anticipare il fallimento e l’insorgenza delle resistenze, con uno swich ciclico di terapie funzionanti, che permettano anche un futuro riutilizzo dei farmaci utilizzati. Dunque: in un contesto di infezione controllata, in cui un paziente assume da due, tre, quattro anni (tempo da definire e discutere) un regime terapeutico funzionante, in assenza di documentate resistenze, ha senso perpetuarlo in una terapia che prima o poi è probabilmente destinata a fallire oppure ha maggior senso anticipare questo fallimento con nuovi regimi, sfidando l’insidia del possibile evento avverso, ma garantendo al paziente di poter ritornare a quello vecchio ? Una strategia di questo tipo, cosiddetta di anticipazione della mutazione, consentirebbe di ridurre o almeno di non incrementare quel serbatoio di pazienti “storici” e multiresistenti. Va detto, ad onor del vero, che una strategia di questo tipo, ciclica, andrebbe fatta analizzando sempre il contesto della resistenza crociata tra i farmaci di una stessa classe.

Si andrebbe così a ridefinire il termine “switch”, che da aggressivo e necessario diventerebbe invece preventivo e possibilista. Si andrebbe così a ridefinire anche il concetto di “linea terapeutica”, non più come “punto in cui il paziente è costretto a cambiare terapia per fallimento”, ma “punto in cui si sceglie, in maniera ragionata, di cambiare la terapia per preservare delle opzioni”.

Ci rendiamo conto che una filosofia del trattamento impostata in questo modo è tanto azzardata quanto non validata. Tuttavia numerosi pazienti che l’hanno adottata, e che hanno anche infezioni antiche, sono oggi qui con noi. L’idea di cambiare la tipologia molecolare di pressione farmacologica sul virus non è poi così originale, anzi probabilmente è dotata di buon senso intrinseco.

E’ opportuno dunque riflettere, oggi come oggi, a questo tipo di sfida filosofica: “se va tutto bene, dopo un certo periodo di tempo, può aver senso fare uno switch intelligente”.

Nadir

As AIDS Drugs Fail Thousands, ‘Salvage’ Is Key

Wall St Journal, By MARILYN CHASE, May 3, 2006

….By the 1996 debut of protease-inhibitor drugs, patients “already had high-level resistance,” .It now appears that rapid switching of single drugs had fueled the development of resistant virus.

Dr. Steve Deeks, ..warns that people on cocktails who still swap in the latest new drug one at a time are perpetuating the problem. “We need to stop switching so aggressively,”.”We need to hold still until we have a number of new families of drugs.” You need to combine two or three novel HIV drugs into a regimen to well suppress HIV fully and durably.

Steve Kovacev, a sinewy 52-year-old from Truro, Mass., has run the Boston Marathon and sailed in the Transpacific Yacht Race from Los Angeles to Honolulu. Neither event comes close to his current competition: a race for his life.

Mr. Kovacev has AIDS. He has used all the drugs available to fight HIV, the virus that causes the disease, but now almost all regimens have lost strength, and his virus is on the upswing. His plight places him in an unenviable class: the estimated 40,000 U.S. AIDS patients whose illness isn’t responding to treatment. As a last-ditch effort, some of these people — Mr. Kovacev included — are turning to a regimen known among AIDS patients and doctors as salvage therapy.

In general, salvage therapy refers to any treatment devised by a doctor to save a patient when all other options have failed. There isn’t a single recipe for salvage. Some AIDS physicians return to older drugs to wring out a last drop of efficacy, while others bid for access to experimental agents in a desperate attempt to bring the spiraling virus under control.

Today there are about one million people living with HIV in the U.S., with about 40,000 new infections a year. In 2004, the most recent year for which statistics are available, 15,798 people died from AIDS, down sharply, thanks to new AIDS drugs, from 51,000 in 1995. Hepatitis and drug toxicity contribute to deaths among HIV patients. Because of salvage therapy, most patients with drug-resistant virus are, for now, hanging on.

Even with optimal treatment, Daniel Kuritzkes, associate professor of medicine at Harvard Medical School, says, “we’ve only changed the slope of the disease progression, not halted it altogether, and eventually they do run out of options.”

Nearly two dozen AIDS treatments are currently on the market. But as the epidemic turns 25, many long-term patients have been driven by the mutating virus to keep switching regimens until all have failed. Of the 40,000 patients who aren’t responding to even the latest high-power medication, “20,000 are in dire need,” says Houston AIDS-treatment activist (and AIDS patient) Nelson Vergel. “I call them the invisibles, because they are too tired and too sick to fight for their rights.”

Mr. Kovacev believes he contracted HIV in the early 1980s from his partner, who died in 1990. In 1996, illness forced him to begin antiviral cocktail treatment for AIDS. He “got very sick last fall and went on a new regimen — one of the last available,” combining the injectable drug Fuzeon with two antiviral pills, says his doctor, Stephen Boswell of the Fenway Community Health Clinic in Boston.

Over the years, Mr. Kovacev has survived bouts of an intestinal parasite that left him wasted, a virus that nearly blinded him, and painful neuropathy that required morphine. But he rallied to run the 2006 Boston Marathon last month as an unregistered disabled runner. He finished the race — his 13th marathon — in six hours and 41 minutes.

Dr. Boswell cites Mr. Kovacev’s “voracious will to live” and athleticism for his survival. Mr. Kovacev swears by nutrition and Dr. Boswell’s vigilance in tailoring 10 successive AIDS cocktails.

Mr. Kovacev hates the term “salvage therapy.” “Salvage sounds like you’re dredging a shipwreck,” he says.

Mr. Vergel seems resigned to the term. “Salvage isn’t a science. Salvage is an art,” says the Houston activist, who has taken all 22 approved AIDS drug products.

Many patients now in salvage have, like Messrs. Kovacev and Vergel, lived with HIV for over two decades. Some like Mr. Vergel took the first antiviral, AZT, approved in 1987, and swapped in each new product until protease inhibitors in 1996 heralded the era of modern drug cocktails.
AIDS patient Steve Kovacev as he competed in the 1997 Boston Marathon.

At San Francisco General Hospital, physician Steven Deeks is studying 300 salvage patients, many of whom started on AIDS drugs in the early 1990s. Many considered aggressive switching as the best practice at the time, and the patients quickly switched to each new product like DDI and 3TC.

By the 1996 debut of protease-inhibitor drugs, which are now anchors of modern cocktail therapy, such patients “already had high-level resistance,” Dr. Deeks says. It now appears that rapid switching of single drugs had fueled the development of resistant virus.

Dr. Deeks, an associate professor of medicine at the University of California at San Francisco, warns that people on cocktails who still swap in the latest new drug one at a time are perpetuating the problem. “We need to stop switching so aggressively,” he says. “We need to hold still until we have a number of new families of drugs.”

Salvage therapy is “a huge issue,” says Harvard Medical School Professor Jerome Groopman. “You’ve got these patients who did well and you’re excited for them. Then you get back with them and they have 12 mutations. You’re desperately searching. They’re hanging on by a thread.”

Dr. Deeks urges resurrecting old drugs like AZT or 3TC as stopgaps to stabilize patients until two or three novel drugs can be combined in an all-new cocktail.

Once doctors get access to two or three novel drugs, they can concoct the first all-new cocktail many patients have had in several years. Raining multiple blows on HIV gives a chance even patients with multidrug-resistant virus can lower the level of HIV in the blood to the limits of detection, Harvard’s Dr. Kuritzkes says.

Experimental drugs furthest along in the new product pipeline include: the new protease inhibitor TMC114 from Johnson & Johnson’s Tibotec unit; new integrase inhibitors from Merck & Co. and Gilead Sciences Inc.; new entry inhibitor drugs that block the CCR5 co-receptor from Pfizer Inc. and Schering-Plough Corp.; and Tanox Inc.’s IV monoclonal antibody to block the virus’s entry through the CD4 receptor on human immune cells.

“I’m excited,” Mr. Vergel says. But he adds, “I want people to wait. Don’t blow your options by adding [one drug] to a failing regimen.”

For those who can wait, Mr. Vergel says the new drug pipeline may yield products this summer and next spring. “I am just concerned that so many patients who need help now may not see the good days coming ahead,” he says.