E’ stato uno dei temi più seguiti al Social forum parigino. Un confronto con ricercatori di vari paesi che ha messo a nudo gli effetti del neoliberimo sulla scienza. E dal quale è emerso tra l’altro che il disimpegno pubblico in questo campo non riguarda soltanto l’Italia.Per una volta si può partire dalla fine, da quando il coordinatore dà la parola al pubblico che paziente ha ascoltato come minimo sei relazioni. Questa volta a prendere la parola sono ricercatori, scienziati francesi, spagnoli, inglesi, tedeschi (gli italiani erano rappresentati prevalentemente da studenti universitari o dottorandi, ma che hanno preferito rimanere silenti). «Questo movimento – afferma una geografa del Cnr francese – ci ha costretto a riflettere sulle conseguenze del nostro lavoro sulla società. Finora, svolgevamo le nostre ricerche, che erano valutate da altri scienziati e tutto filava via liscio secondo una procedura unanimemente accettata. Poi leggi sul giornale che migliaia di persone protestano contro gli Ogm, contro il nucleare e contro le ingerenze delle industrie nell’attività di ricerca e qualche dubbio ti viene. Poi ti capita tra le mani un libro o un saggio di un tuo collega che sposa le posizioni del movimento contro la globalizzazione e che motiva `scientificamente’ le ragioni di tale opposizione. A questo punto i dubbi non possono essere relegati ai margini della tua attività e devi fare i conti con una realtà che contesta il tuo modo di lavorare e che non avevi previsto». L’intervento della geografa è stato solo l’avvio di un torrente di racconti, proclami, meditazioni che ha reso la sessione tenuta a Ivry-sur-Seine sulla «Privatizzazione della ricerca» uno degli appuntamenti più proficui di queste giornate parigine. Comune a tutte le relazioni e gli interventi del pubblico è la constatazione che la costante e inarrestabile riduzione degli investimenti statali nella ricerca non riguarda, ad esempio, solo l’Italia e la Spagna, da sempre fanalino di coda nell’intervento pubblico sulla formazione scolastica e nella ricerca scientifica, ma anche la Francia, l’Inghilterra e la Germania.
Nei giorni scorsi, il quotidiano Liberation ha dedicato l’apertura all’annuncio del governo francese di una riduzione della quota di prodotto interno lordo riservata agli istituti di ricerca e alle università. Il tono degli articoli erano sul drammatico, perché, si poteva leggere, chi rimane indietro nell’innovazione tecnico-scientifica è destinato a rimanere indietro nella corsa della competitività mondiale. Per i ricercatori intervenuti nella sessione plenaria del Forum sociale europeo ci sono anche altri fattori che accompagnano la progressiva ritirata dello stato in questo settore: la crescita della precarietà dei ricercatori, che cominciano anche qui ad avere il problema di andare a cercarsi i fondi dai privati.
Certo, se si paragona la situazione francese a quella italiana, Parigi può apparire come il paese di Bengodi, visto che la Francia ha sempre investito molto di più degli altri paesi europei, Germania compresa. Ma quello che conta, come hanno ricordato tutte le relazioni introduttive, è che il neoliberismo considera il mercato come il migliore allocatore delle risorse anche in questo settore. E questo emergeva negli intervento di un ricercatore inglese dell’Università di Leeds, il quale ha cercato di spiegare come il sistema di valutazione sulle ricerche e dell’insegnamento nelle università proposto dal governo di Toni Blair sia incentrato su criteri squisitamente manageriali – quante persone il capoprogetto coordina, quanti gli studenti seguono i corsi di un docente, quale il budget e in che cosa si è speso, se in viaggi o in pubblicazioni -. Lo stesso refrain si è potuto ascoltarlo nelle parole di un fisico portoghese, il quale denunciava l’operazione di lobby compiuta da alcune imprese nel suo paese per condizionare i progetti governativi in funzione di ricerche funzionali alle necessità del aziende. «Non possiamo rimanere nelle nostre torri d’avorio – ha sostenuto un biologo del Cnr francese -. Siamo lavoratori come gli altri. Dobbiamo far valere i nostri diritti», riferendosi alle mobilitazioni di questi mesi dei tecnici e dei ricercatori francesi in difesa del carattere pubblico della ricerca.
La presa di parola dei ricercatori è stata salutata dai relatori con ripetuti applausi. Da Vittorio Agnoletto a Michéle Rivasi di Greenpeace, da Janine Guespin del Cnr a Namorado Rosa dell’equivalente portoghese del Cnr, tutti avevano posto l’accento sul come stia procedendo la privatizzazione della ricerca scientifica in Europa. Interventi misurati, ma molto documentati, che illustravano l’ambivalenza della dismissione statale degli istituti nazionali della ricerca scientifica. Per Namorado Rosa bisogna essere molto accorti nell’affermare ciò, perché nel paese leader del neoliberismo (gli Usa), le agenzie federali, il National Institute of Health e il Pentagono hanno investito dal 1945 centinaia di migliaia di miliardi di dollari nella scienza, imponendo per legge che a livello di ricerca di base i risultati dovevano essere comunque di pubblico dominio. E’ semmai la loro applicazione che è privata, attraverso la legislazione dei brevetti e del copyright. E di brevetti e copyright ha parlato a lungo anche Vittorio Agnoletto, in particolar modo per ricordare come i brevetti siano stati lo strumento delle industrie farmaceutiche per mantenere alti i profitti sui medicinali salva vita. Questo grazie ai famigerati Trips (Trade related intellecutal property rights) del Wto Lo stesso, ricordava Janine Guespin, si appresta a fare l’Unione europea. A Bruxelles le lobby delle grandi corporation lavorano ventiquattrore su ventiquattro per influenzare i lavori delle commissioni e del parlamento europeo. E finora hanno avuto buoni risultati. Dal loro punto di vista, ovviamente.