Per arginare l’AIDS nei paesi più poveri del mondo serve una politica decisa, alla larga dai luoghi comuni. nel libro No AIDS: Globalizzare la salute, edizioni Avverbi, 183 pagine, 10 euro, Daniela Minerva e Stefano Vella riescono a far capire perché questa malattia è, per molti aspetti, diversa dalle altre, e perché riguarda tutti molto da vicino.
Il controllore della verginità si aggira per i villaggi del territorio zulu, ed eseguendo il suo compito con un unico paio di guanti di gomma per giorni e giorni trasmette l’infezione anche a giovani che non appartengono a nessuna delle categorie a rischio tradizionali: non sono prostitute né mogli, ma solo vittime di uno degli aspetti più retrogradi di quella che viene definita African Renaissance, cioè la riscoperta delle tradizioni tribali come strumento di emancipazione dall’occidente. Raccontando storie come queste, al di là delle statistiche, nel libro No AIDS-Globalizzare la salute (edizioni Avverbi, 183 pagine, 10 euro) Daniela Minerva e Stefano Vella riescono a far capire perché questa malattia è, per molti aspetti, diversa dalle altre, e perché riguarda tutti molto da vicino. “L’AIDS – affermano – ha creato un ponte tra le nostre coscienze e il Sud del mondo. Oggi si è aperta una finestra che offre la possibilità di democratizzare i sistemi sanitari dei paesi più poveri, e i movimenti no global possono trovarsi alleati con le istituzioni globali come il WTO, perché sconfiggere l’AIDS è interesse di tutti”. Il che non implica, come si è tentato di fare finora, l’imposizione di modelli sanitari inapplicabili. Piuttosto, un cambiamento radicale di rotta, dopo decenni di buonismo di facciata. Obiezioni diffuse quali quella che il costo dei farmaci renda impossibile il loro utilizzo nei paesi poveri ormai non reggono più, perché oramai sono disponibili protocolli semplificati ma efficaci, e accordi tra aziende, WTO e governi per la riduzione dei prezzi. Non è scontato, inoltre, che i paesi poveri non siano in grado di gestire la terapia: formare personale si può, anche in Uganda o in Cina. La posta in gioco, ricordano Minerva e Vella, è piuttosto alta: 50 milioni di vite.