Malgrado le promesse dell’Organizzazione mondiale del commercio, nel novembre 2001 a Doha, le multinazionali farmaceutiche del Nord continuano la loro guerra mondiale contro i poveri. Con la complicità degli Stati uniti e dell’Unione europea. Nel momento in cui l’Aids che fa ottomila morti al giorno, cos’è più urgente dello sbloccare l’accesso alle cure?
Scelta politica o gaffe presidenziale? Nel discorso sullo stato dell’Unione del gennaio 2003, George W. Bush ha pronunciato una frase che ha lasciato perplessi gli osservatori. Nell’annunciare una maggiore e più sostanziale partecipazione americana al finanziamento della lotta contro l’Aids nel mondo, il presidente Bush si è detto felice che il costo annuo di un trattamento anti retrovirale sia sceso da 12.000 a… 300 dollari, prezzo che oggi viene proposto solo dai produttori di copie di generici. Quegli stessi generici che, secondo Bush, «mettono a nostra disposizione immense possibilità» sono combattuti strenuamente in tutte le sedi internazionali dall’attuale amministrazione americana (esattamente come da quella precedente). Da due anni, l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) si è impantanata in un’aspra lotta sui brevetti dei medicinali. Le maggiori potenze commerciali – Stati uniti e Unione europea in testa, seguiti da Giappone e Canada – , hanno tentato di tutto per affossare l’accordo concluso a Doha (Qatar) nel novembre 2001. E proprio l’intransigenza degli Stati uniti ha fatto fallire i «colloqui dell’ultima speranza», tentati a fine dicembre 2002 a Ginevra. Lo scontro si è focalizzato sull’estensione delle urgenze sanitarie in nome delle quali un paese potrebbe essere autorizzato a non rispettare i brevetti per curare la popolazione. Secondo i paesi ricchi, la cui industria monopolizza quasi in toto i brevetti farmaceutici mondiali, le uniche eccezioni tollerabili ai brevetti dovrebbero riguardare i medicinali per la lotta contro Aids, tubercolosi e malaria; patologie alle quali, per fare numero, hanno aggiunto una manciata di malattie, per lo più tropicali e di scarso interesse commerciale. Ma né cancro, né diabete, né asma, solo per fare degli esempi, figurano nella ristretta lista di malattie a cui vogliono restringere l’accordo di Doha. Per limitare la portata dell’accordo sono stati presi in considerazione anche altri aspetti, più tecnici. Dopo aver ridotto il numero dei paesi autorizzati a richiedere le eccezioni e aver decurtato le tecnologie consentite dal quadro dell’accordo, è stato pianificato un insieme di vincoli legali, complessi e costosi da realizzare, che limiterebbero ulteriormente le possibilità di procurarsi medicinali brevettati a basso costo. In realtà, i paesi ricchi hanno cospirato per sbiadire – o cancellare – le promesse fatte un anno prima. Come si è arrivati a tanto? L’incontro di Doha era stato preceduto da episodi drammatici: trentanove industrie farmaceutiche avevano intentato un processo al governo sudafricano per costringerlo ad annullare una modifica alle leggi sui brevetti. Grave errore mediatico: nell’aprile 2001, la mobilitazione dei sieropositivi sudafricani e le immagini provenienti dalle aule dei tribunali avevano trasformato il processo in un disastro per le imprese querelanti e suscitato vergogna nell’opinione pubblica dei paesi ricchi. Contemporaneamente anche gli Stati uniti, che avevano chiesto al Wto di annullare una legge brasiliana destinata ad aggirare i diritti sui brevetti, bersagliati dalle critiche, avevano dovuto rinunciare al procedimento. In seguito, dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, il bioterrorismo aveva provocato il panico negli Usa: spore di bacillo di carbonchio, contenute in buste indirizzate ad alcuni uffici pubblici e organi di stampa, avevano provocato cinque morti e il paese si preoccupava di avere accesso ad una quantità sufficiente di Cipro, un medicinale in grado di trattare alcuni ceppi di questa malattia. In quell’occasione, per garantire un approvvigionamento sufficiente a un prezzo ridotto, il Canada e gli Stati uniti avevano imposto alla Bayer, detentrice del brevetto sul Cipro, di ignorare il suo brevetto – atto legittimo, ma in contraddizione con le pressioni esercitate su Brasile o Sudafrica per impedire loro di fare lo stesso per l’Aids… Messi sulla difensiva, i paesi ricchi, durante l’incontro di Doha, hanno accettato una dichiarazione generale sul diritto di tutti i paesi a prendere opportune misure per proteggere la salute pubblica. Un successo presentato come l’avvento di una nuova era nel commercio internazionale, diventato più giusto verso i poveri. Ma i quattordici mesi di trattative che hanno fatto seguito all’incontro, e che avrebbero dovuto riguardare i dettagli necessari alla concreta realizzazione della dichiarazione di Doha, sono sfuggiti a ogni controllo; Stati uniti e Unione europea hanno consolidato il loro sostegno ai grandi esportatori di prodotti farmaceutici, al punto che, per i paesi in via di sviluppo e i difensori della salute pubblica, il «passo avanti» di Doha si rivela oggi un arretramento. La battaglia si incentra sull’accordo detto «Adpic» – «aspetti dei diritti di proprietà intellettuale relativi al commercio» – , uno dei tre pilastri del Wto (1). In teoria questo è un accordo flessibile, in quanto permette ad ogni paese di adottare un certo numero di misure per proteggere l’interesse pubblico, in particolare sul piano sanitario. Una delle disposizioni più importanti autorizza i governi a forzare la mano al detentore di un brevetto per consentire una produzione locale – meccanismo conosciuto con il nome di licenza obbligatoria – negoziando poi una modesta compensazione finanziaria. A Doha, tutti i paesi membri dell’Organizzazione mondiale del commercio hanno adottato una dichiarazione su Adpic e salute pubblica, secondo la quale questo accordo «può e deve essere interpretato e realizzato in modo da favorire il diritto dei membri del Wto di proteggere la salute pubblica, in particolare promuovendo l’accesso di tutti alle cure». La dichiarazione, di un’energia sorprendente per questa organizzazione, non è piaciuta alle grandi compagnie farmaceutiche le quali, in risposta, hanno concentrato la propria attenzione su uno dei punti chiave della sua realizzazione. Ignoranza o cinismo? Il paragrafo 6 della dichiarazione prescrive che il Wto trovi una soluzione al problema delle restrizioni all’esportazione. Infatti, quando un paese decide d’imporre una licenza obbligatoria su un brevetto, è sottinteso che la copia del medicinale realizzata dai produttori locali deve essere destinata essenzialmente al mercato interno. Ma se tutti i paesi potenziali produttori si vedono proibire l’esportazione, come può far valere i suoi diritti un paese che non dispone di alcuna industria? E se il suo mercato locale è piccolo, come può lo stesso paese disporre di produttori interni validi – sapendo che nell’industria farmaceutica le economie di scala sono molto importanti? Una soluzione ragionevole – e che non contraddice il libero scambio predicato dal Wto – sarebbe quella di autorizzare l’esportazione di una copia del medicinale in tutti i paesi che avessero deciso di far prevalere il diritto alla salute sul rispetto dei brevetti. Così si metterebbero concretamente a disposizione, e al minor costo, medicinali in grado di alleviare le sofferenze ed evitare la morte di milioni di persone. Dettagli pratici? Eppure è proprio il paragrafo 6 che fornisce a Robert Zoellick, rappresentante degli Stati uniti per il commercio, e Pascal Lamy, commissario europeo per il commercio estero, lo strumento decisivo per ribaltare il senso della dichiarazione di Doha, dopo averne incamerato i benefici mediatici. A fine dicembre 2002, negli ultimi giorni della trattativa-maratona, e sotto la pressione della lobby farmaceutica, Washington presenta a sorpresa una lista che riduce le malattie comprese nella dichiarazione. Questo elenco, non supportato da alcun criterio di salute pubblica, ottiene l’unanimità del dissenso: si oppongono ben 143 paesi sui 144 membri del Wto, oltre che la direttrice uscente – e il futuro direttore – dell’Organizzazione mondiale della sanità. Questo non ha impedito a Lamy di tentare, il 7 gennaio 2003, un rilancio della trattativa sulla base di una lista simile suggerendo, per ogni malattia che non vi figuri, una consultazione preliminare del Wto che consenta di «introdurre un organismo di fiducia per oliare gli ingranaggi della trattativa (2)». «Fiducia», un termine chiave che apre la strada a tutte le possibili pressioni bilaterali… Ormai Stati uniti e Unione europea stanno mettendo i paesi poveri di fronte a una scelta difficile e crudele: o accettano un accordo viziato e complesso, pieno di limiti e restrizioni che, alla fine, funzionerà (male) solo per pochi paesi, o resteranno a mani vuote. Infatti per Zoellick «il problema era che un numero sempre maggiore di paesi voleva ottenere il diritto di importare da paesi terzi (…), compresi alcuni che dispongono di un’industria farmaceutica forte. In questo modo il numero di paesi che può disporre di privilegi particolari aumenta fino a circa 120. Alcuni poi vogliono estendere l’accordo a più malattie. Ma allora se una situazione che deve essere considerata eccezionale viene estesa a quasi tutti i paesi fuori-Ocse e a tutte le malattie, alla fine si sarà aperta una voragine nel regime della proprietà intellettuale (3)». Naturalmente le eccezioni al diritto dei brevetti continueranno a essere applicate senza difficoltà nei paesi ricchi, dove i mercati sono grandi e dove lo stato non esita a chiedere licenze obbligatorie su molte tecnologie. Il Cipro non è stato un caso isolato: gli Stati uniti di recente hanno imposto centinaia di licenze obbligatorie su tecnologie molto diverse quali camion semirimorchio, alcune varietà di cereali, prodotti farmaceutici, brevetti genetici, materiale e software informatici… per citarne solo una parte. Da parte sua, il commissario europeo Pascal Lamy tenta di persuadere i paesi in via di sviluppo che «i medicinali non si inventano da soli», e rimane del tutto indifferente quando il Giappone chiede che i vaccini siano esclusi dalla trattativa. La sua équipe spiega ai giornalisti che diabete, cancro o asma non sono priorità. Ma, contemporaneamente, l’Unione europea programma una serie di licenze obbligatorie su nuove varietà di piante, e Regno unito, Francia e Canada fanno capire di essere pronti a travalicare i brevetti di Myriad sui geni legati al cancro del seno (4). Anche recentemente, i laboratori della Roche hanno fatto uso di una legge tedesca sulla proprietà intellettuale per forzare la Chiron, un’azienda di biotecnologia californiana, a concedere loro una licenza su una tecnologia di test Hiv. Le discussioni vertono su questioni molto tecniche, ma alcuni elementi dovrebbero avere la forza dell’evidenza. Lamy e Zoellick aprono un falso dibattito sul problema delle licenze obbligatorie, visto che l’accordo sugli Adpic permette già ad ogni membro del Wto di scavalcare un qualsiasi brevetto, decidendone i motivi in prima persona. Questo, come si è visto, non può funzionare in modo efficace per i paesi piccoli con un mercato interno limitato. Tanto più che, nel 2005, l’India e gli altri esportatori potenziali di copie di medicinali saranno assoggettati ai vincoli degli Adpic e non saranno più autorizzati a fornire ai piccoli paesi medicinali a basso costo. D’altra parte nessun indice fa pensare che i paesi in via di sviluppo abuseranno di licenze obbligatorie. Nella pratica, attualmente sta succedendo proprio il contrario, dato che sono pochi i paesi che osano far valere i propri diritti di fronte al rischio di misure intimidatorie e ritorsioni. Il Sudafrica, benché conti 5 milioni di sieropositivi (5), alla fine del 2002 ha rifiutato una domanda di licenza obbligatoria su alcuni medicinali anti-Aids, suggerita dal produttore indiano Cipla. Quanto al Brasile, si è limitato in tre occasioni a minacciare il ricorso a licenze obbligatorie, due volte per dei prodotti anti-Aids molto costosi, e una volta per il Glivec, un medicinale contro la leucemia che costa 50.000 euro l’anno – in tutti e tre i casi è stato trovato un accordo amichevole di riduzione dei prezzi. L’affermazione secondo la quale polmonite, diabete, asma, malattie cardiache o cancro non sono prioritari per i poveri nasce da ignoranza o cinismo: la maggior parte delle morti per cancro avviene nei paesi poveri – 80 milioni di malati oncologici non hanno accesso alle cure; alle Seychelles, l’ipertensione colpisce il 22% della popolazione, a Cuba il 30%; l’asma uccide 180.000 persone ogni anno, soprattutto tra i poveri, e i casi non mortali provocano gravi sofferenze a chi non può curarsi (in Brasile, Costa Rica, Panama, Perù e Uruguay la prevalenza dei sintomi asmatici nei bambini varia dal 20 al 30%; in Kenya è vicina al 20%; i due terzi delle persone che hanno problemi di sordità vivono nei paesi in via di sviluppo; i pazienti che soffrono di diabete in India sono il doppio di quelli degli Stati uniti – l’Etiopia ha più diabetici della Svizzera e via dicendo. Inoltre la depressione immunitaria dovuta all’Aids rende ogni malattia, anche la più benigna, potenzialmente letale. I paesi in via di sviluppo, soffocati dal debito, dedicano troppe poche risorse alla salute. Ogni dollaro economizzato sul costo di cure, vaccini, test, per l’una o l’altra malattia che colpisce la popolazione, è un dollaro utilizzabile per acquistare più medicinali o medicinali più cari, per far funzionare o ricostruire le infrastrutture, pagare medici e infermiere, e via dicendo. L’accordo del novembre 2001, realizzato da gente in buonafede, avrebbe dovuto eliminare i principali ostacoli giuridici che impediscono a questi paesi di organizzarsi per assicurare a tutti le cure necessarie. Al contrario, da allora, i rappresentanti dei paesi più garantiti in campo sanitario e dotati di migliori livelli di vita, si sono impegnati nel sabotaggio sistematico della dichiarazione di Doha.