Economisti, biologi, fisici e matematici a confronto in una conferenza internazionale sulla «teoria delle reti». La natura e la società funzionano allo stesso modo. Lo sostiene il ricercatore inglese Mark Buchanan nel libro «Nexus».Quanto è difficile per ciascuno di noi conoscere di persona il presidente degli Stati Uniti – ammesso che qualcuno possa essere entusiasta dalla prospettiva di stringergli la mano? Risposta: non troppo. Ci vorrebbe in media una catena di circa sei contatti intermedi. E la cosa non vale solo per l’uomo più potente del mondo (o presunto tale), ma per qualsiasi coppia di abitanti della terra, indipendentemente da dove vivano, nel cuore dell’Amazzonia o in uno sperduto paese della campagna cinese. Si chiama small world theory ed è la spiegazione scientifica del detto «quant’è piccolo il mondo». Il tema è solo apparentemente frivolo e ci sono ormai centinaia di ricercatori in tutto il mondo che si occupano della questione che oggi ha un nome: teoria delle reti. Una branca della scienza molto giovane, nata nel 1998 quando i due matematici Duncan Watts e Steve Storgatz della Cornell University scoprirono che i punti di una rete, fosse questa sociale, biologica, o artificiale, si possono collegare in un modo molto particolare: né ordinato, né completamente casuale e – cosa ancor più sorprendente – che tutti i sistemi a rete del mondo reale funzionano nello stesso modo.
Il tema è affrontato nella conferenza Growing networks and graphsin statistical physics, fnance, biology and social systems che si tiene questa settimana a Roma e che riunisce i maggiori esperti mondiali del campo. Dietro al titolo tecnico si intravede la potenza e l’ambizione di un approccio dichiaratamente interdisciplinare che tenta di unificare la visione di fenomeni profondamente diversi come il sistema dei neuroni del nostro cervello, le relazioni personali, i sistemi ferroviari o di distribuzione dell’energia elettrica, la cellula, la propagazione di un virus (informatico o biologico), internet, un ecosistema (locale o globale) o il sistema economico mondiale. Un principio che, come scrive Mark Buchanan in Nexus (Mondadori, pp. 275, € 19) rende l’universo «molto più semplice da interpretare di quanto non immaginiamo».
Benché oggi siano le scienze cosiddette hard a dominare l’enorme sviluppo di questa giovane disciplina, uno dei primi spunti in questo campo venne dato curiosamente da uno psicologo sociale americano di nome Stanley Milgram. Questi aveva scritto a un campione casuale di residenti del Nebraska e del Kansas pregandoli di inoltrare una lettera a un suo amico di Boston, ma invece di dare loro l’indirizzo del destinatario, li aveva invitati a spedire la missiva a un loro conoscente che avessero ritenuto socialmente più «vicino» all’agente. Risultato sorprendente: gran parte delle lettere alla fine era arrivata a destinazione e con un numero piuttosto piccolo di intermediari (circa 6 appunto). Di cui l’espressione «sei gradi di separazione».
«La cosa che abbiamo scoperto è che la maggior parte delle reti mostrava delle proprietà inaspettate», spiega l’ungherese Albert-László Barabási, professore di fisica all’università di Notre Dame nell’Indiana (Usa) e uno degli «inventori» della scienza delle reti, raccontata nel suo libro Linked, uscito nel 2002.
«In sostanza, le reti non sono casuali e quindi non sono omogenee: la maggior parte dei nodi ha pochi legami con gli altri, mentre ci sono pochi nodi che sono altamente collegati, chiamati hub».
Questo effetto si chiama anche `effetto Matteo’ dal passo dell’evangelista che dice più o meno che «i ricchi diventeranno più ricchi e i poveri più poveri». Un nuovo nodo che si collega a una rete tenderà infatti a farlo legandosi più ai nodi altamente collegati che agli altri. «In sostanza sono gli hub a fare la differenza – continua Barabási -: nella diffusione dei virus come l’Aids sono i `nodi’ che fanno più sesso a trasmettere di più la malattia che non le madri con bambini. Paradossalmente, una strategia più efficace del dare la cura solo alle madri malate sarebbe quella di curare di più le prostitute. Vale lo stesso per gli amici o per internet: incontrerò più probabilmente quelli con molti amici o linkerò nella mia homepage più probabilmente le pagine a loro volta più linkate. Anche nelle conferenze è così: in questo piccola rete di ricercatori io stesso sono hub: in questa sala ci sono molte altre persone che avrebbero lo stesso diritto di parlare con i giornalisti di me, ma sono io quello che lo fa perché in qualche modo sono più famoso».
Il fatto davvero sorprendente è che tutto questo vale non solo per le reti artificiali ma anche per quelle biologiche o sociali. Non basta: le reti non hanno un cervello centrale che le governa, come accade per le comunità di termiti o di api. «Si sviluppano – continua Barabási – per decisione indipendenti e libere di ciascun nodo: sia essa l’università di Notre Dame che deve decidere a che router collegare il proprio sistema di internet o il navigatore che stabilisce liberamente i link da aggiungere alla sua pagina personale. A questo livello la decisione è `democratica’, ma il risultato finale non lo è perché gli hub sono più importanti degli altri nodi per tenere insieme la rete».
Alessandro Vespignani, che lavora nel Laboratorio di fisica teorica dell’università di Parigi sud, si occupa delle interazioni biologiche della rete di proteine. «Oggi la scienza assiste a un processo inverso rispetto a quello che l’ha caratterizzata fino ad oggi – spiega -. Finora la tendenza era quella della specializzazione e del riduzionismo. Ma oggi si è capito che questo approccio non porta lontano e le discipline si devono rincontrare, il che è stimolante da un punto di vista culturale. Beninteso: capire come sono fatti i mattoni è essenziale, ma è arrivato il momento di capire anche l’architettura con cui costruiamo una casa».
Non è che magari, col tentativo di riportare a uno schema comune tanti e diversi campi della scienza, rifacciamo entrare dalla finestra il riduzionismo e i determinismo che gli scienziati hanno cacciato dalla porta? «Non credo – dice Vespignani -. Questo approccio ci porterà a capire molte cose inimmaginabili, ma certo non tutto, e anche i risultati a cui arriveremo avranno i loro limiti».