Il caso della donna milanese che preferisce lasciarsi morire piuttosto che farsi amputare una gamba in cancrena. La famiglia le dà ragione, centinaia di cittadini le scrivono: «ripensaci». Imbarazzo del sindaco, mobilitate le associazioni.Convincerla. Alla comunità di estranei che da cinque giorni si sta occupando di lei, e che la insegue lungo la penisola, non resta altro da fare per strapparla a una morte quasi certa. E’ doveroso provarci, ma è necessaria una buona dose di presunzione per cercare di far cambiare idea a una donna, perdipiù sconosciuta, che ha deciso di morire piuttosto che sottoporsi all’amputazione di un arto. Tentare in tutti i modi di convincerla è stato un dovere per i dottori che l’avevano in cura, e sarebbe un gesto d’amore se insistessero le persone a lei più vicine: ma l’ex marito ha accettato la sua scelta. E ieri la sorella ha chiesto a tutti di lasciarla in pace, «noi siamo con lei, ma tutto questo clamore ci fa stare ancora più male». Anche la costituzione (art.32) è dalla sua parte: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». In un caso come questo alle persone sane viene da chiedersi come si possa voler rinunciare alla vita, e allora per darsi una risposta rassicurante si cerca di scavare in quella di una persona di cui si sa nulla ma si chiacchera già troppo, per esempio «si dice» che «non cura l’igiene della casa» e che «crede nella reincarnazione». Dettagli, che forse aiutano a non identificarsi troppo con una donna che sceglie di farla finita. Resta il fatto, lo hanno appurato gli psichiatri, che nemmeno l’adesione al più strano credo può pregiudicare la capacità di intendere e volere della paziente.
La donna, 62 anni, ha il diabete e il piede destro in cancrena, una patologia che comunque continuerebbe ad affliggerla anche dopo l’amputazione. Il suo rifiuto – le dimissioni volontarie della donna dall’ospedale san Paolo di Milano risalgono a giovedì scorso – ha acceso i riflettori su un «caso umano» che ripropone il dilemma tra chi sostiene sempre la libertà individuale, anche di fronte alla morte, e chi invece mette al centro l’etica religiosa o civile secondo cui la vita di un individuo appartiene (solo) a dio o (anche) alla società. Complici i forum on-line e il chiacchiericcio mediatico, il dibattito è partito e la commozione si è scatenata. Piovono messaggi da tutta Italia, e chi ha subìto il trauma di un’amputazione invia parole di sollievo. Tra i commenti prevale una sensibilità laica, ma c’è chi invoca il trattamento sanitario obbligatorio (tso) per procedere all’amputazione senza il consenso della paziente. Chi scrive «sono rimasto indignato dal comportamento del comune di Milano sulla vicenda, ritengo che nessuno possa ordinare un’amputazione di un piede a una persona che è contraria», e chi replica «la vita è sacra e nessuno ha il diritto di togliersela, il sindaco di Milano ha il dovere di intervenire» (forum Corriere della Sera).
Il sindaco Albertini, che saggiamente non se la sentirebbe di intervenire d’autorità, proprio ieri ha scritto una lettera da «amico» alla signora: «Cara Maria, ci ripensi». Tutti si augurano che la signora possa cambiare idea, e quasi tutti – fatta eccezione per chi straparla del dolore altrui (qualche politico, il Codacons e perfino un sindacato di polizia…) – sono contrari al trattamento sanitario obbligatorio. «Il diritto di rifiutare le cure va rispettato», ribadisce il ministro alla sanità Girolamo Sirchia. «Anche io mi auguro che la signora cambi idea ma non vi è alcuna giustificazione per operarla contro la sua volontà», commenta Silvio Viale, medico dell’associazione Exit che si occupa di eutanasia. «Credo inoltre che sia fuori luogo – aggiunge – ogni ironia sulle convinzioni religiose della signora. Comunque il suicidio non è un reato, ma anche io che sostengo il diritto a una morte dignitosa, mi permetto di dire alla signora che è meglio che si operi». Secondo Ivano Giacomelli e Maria Barroccu Bravi, del Codici (Centro per il diritto del cittadino), «bisogna stare attenti ad assumere derive autoritarie quando ci si occupa di problemi importanti come questi». Per Stefano Inglese, segretario nazionale del Tribunale dei diritti del malato-Cittadinanzattiva, si rischia di mettere in discussione 25 anni di battaglie per l’autodeterminazione del paziente e per il rispetto della sua volontà. «Non è per caso che questo tipo di intervento necessita del consenso informato – spiega – e se la signora si è espressa con tanta determinazione proviamo ad immaginare quale potrebbe essere la sua reazione qualora la si obbligasse all’amputazione di un arto: una persona può lasciarsi morire in molti modi. Il fatto è che si è enfatizzata solo l’impossibilità di intervenire per salvarla, mentre il punto di vista del paziente è stato visto unicamente come un impedimento».