Contro il «si curi chi può» del governo oltre 150 mila tra medici, dirigenti, veterinari e amministrativi si asterranno dal lavoro lunedì prossimo. Un contratto scaduto da quasi due anni. Un governo che investe poco nel pubblico e confida sulla spesa privata. Un sistema sanitario nazionale che, sotto i colpi della devolution, minaccia di diventare regionale. Ma anche un ministro che, in un incontro organizzato pochi giorni prima di uno sciopero, dice: «Non voglio entrare in questioni politiche». E propone «tavoli tecnici» più o meno inconsistenti. Sono questi alcuni degli elementi che hanno portato a confermare lo sciopero dei medici di lunedì 9 febbraio. Sciopero storico, che unirà per la prima volta 40 sigle sindacali: vale a dire oltre 150.000 persone tra dipendenti del sistema sanitario (non solo medici: ci saranno anche veterinari, amministrativi e tecnici) e specializzandi. I disagi saranno notevoli: salteranno gli interventi chirurgici non urgenti (ogni giorno circa 90.000), gli esami, le visite. E ne risentiranno anche i mercati del carne e del pesce, dal momento che l’adesione dei veterinari bloccherà la macellazione e i controlli igienici.
Ma i sindacati rivolgono ai cittadini un appello, perché capiscano che l’agitazione «ha come primo scopo il miglioramento della sanità pubblica», come dice Massimo Cozza, segretario dei medici della Cgil. Già da qualche giorno, in molti ospedali un volantino prova a spiegare agli utenti del servizio sanitario le ragioni dello sciopero.
Ragioni che stanno innanzi tutto nei numeri, come quelli che dà Serafino Zucchelli, segretario dell’Anao-Assomed (l’associazione dei medici dirigenti). Il governo taglia ogni anno il 3% delle risorse, mentre la spesa privata è cresciuta di 30 mila miliardi negli ultimi cinque anni. E la Cgil condensa il concetto in uno slogan: «Si curi chi può», cioè chi può permettersi le costose cliniche private.
«Il problema è che servono fondi per migliorare il servizio sanitario. Altrimenti diventa una sanità virtuale», sostiene ancora Garraffo. E fondi sono necessari anche alla formazione e alla ricerca. Tanto che allo sciopero aderiranno anche gli specializzandi, che ieri non sono stati neanche ammessi ai colloqui con il ministro Girolamo Sirchia.
Nell’incontro di mercoledì, dicono i sindacati in conferenza stampa, Sirchia non ha comunque dato risposte. E forse non può darne: i cordoni della borsa sono in mano a Tremonti, senza contare che in periodo di verifiche di governo la sua poltrona non è solidissima. «Oggi i nostri interlocutori – riconosce Cozza – sono più il ministero delle finanze e le Regioni». Così qualcuno, come Giuseppe Garraffo della Cisl medici, propone di avviare dibattiti a un livello più alto: «In fondo Berlusconi, tra lifting e cure, dei medici dovrebbe essere amico». Ma non è solo una battuta: in molti chiedono l’intervento del premier su un tema così complicato. Che potrebbe ulteriormente complicarsi se l’esecutivo confermerà l’intenzione di applicare il federalismo anche alla sanità. «Si rischia di avere 21 strutture diverse, con le regioni del centro sud molto penalizzate», dice ancora Zucchelli.
In assenza di risposte dal governo, i sindacati hanno in programma altri due giorni di sciopero, l’8 e 9 marzo, e una manifestazione nazionale a Roma, il 2 aprile. E si pensa anche ad altre iniziative, come lavorare a orario ridotto.