Nadir: proponiamo il seguente articolo, con la fonte citata, in quanto si adatta perfettamente al campo dell’HIV, nel quale le linee guida vengono riviste molto velocemente, in forza delle nuove conoscenze acquisite in materia di terapie. La teoria della personalizzazione della scelta terapeutica da parte del medico sul singolo paziente risulta dunque sovrana, pur nell’ambito del buon senso scientifico.I giudici ed i professionisti davanti ai protocolli
Se le linee guida, in particolare quelle classificabili quali evidence-based guidelines (EBG), rappresentano delle raccomandazioni di “comportamento clinico” per trattare nel modo migliore il malato affetto da determinate malattie, esse non possono tuttavia comprimere, fino ad annullarla, l’autonomia del professionista. Non è possibile ritenere, tout court, che il sanitario, il quale non ne abbia fatto applicazione, sia in colpa sulla base di una presunzione legale assoluta (art.2728 Cc): esse infatti fanno riferimento ad un paziente astratto, non a quel “particolare” paziente che il medico deve in concreto curare, e quindi non possono avere un valore perentorio nei singoli casi, pure se forniscono rilevanti elementi per valutare la diligenza del sanitario.
E’ stato già ricordato che la Corte Costituzionale ha sottolineato che non esistono << norme di legge statali volte esplicitamente a disciplinare l’ammissibilità delle pratiche terapeutiche (…) in generale>> e, di conseguenza, l’applicazione fedele e acritica delle linee guida non può essere considerata un obbligo giuridico. Negare un margine di autonomia decisionale nella scelta terapeutica pure in presenza di linee guida affidabili, pertanto, comporterebbe l’inaccettabile conseguenza di creare una nuova figura di sanitario: il medico-computer.
Per altro, come ammonisce l’art. 12 del codice deontologico, espressamente richiamato dalla consulta nella sentenza n. 282/2002, la << piena autonomia nella programmazione, nella scelta e nell’applicazione di ogni presidio diagnostico e terapeutico >> riconosciuti <
Si deve quindi dedurre che anche le raccomandazioni date con le linee guida EBG non costituiscono dogmi, né possono obbligare a seguire determinati trattamenti o impedire la scelta, purché fondata su serie e ragionevoli motivazioni, di altri itinerari terapeutici e, per tanto, la semplice esistenza di una linea guida, in particolare se qualificabile come non-EBG, non giustifica la conclusione che una condotta professionale conforme ad essa sia stata corretta in tutte le circostanze o, al contrario, che l’inosservanza delle indicazioni ivi formulate sia comunque sintomo di negligenza, imprudenza o imperizia.
Il giudice, chiamato a decidere sulla responsabilità di un medico per la mancata osservanza di una linea guida, deve in ogni caso valutare in concreto, rispetto al caso in esame, l’inadeguatezza o meno della condotta tenuta dal professionista nella cura del paziente, in relazione alla specificità del caso clinico in esame e al contenuto e all’autorevolezza scientifica del singolo documento.
Le linee guida devono essere utilizzate quindi, ai fini medico-legali, << con prudenza ed equilibrio>>, tenendo presente non solo la discrezionalità tecnica dell’agire del medico del singolo caso, ma anche la coesistenza, in un determinato contesto storico, di più alternative di cura scientificamente convalidate per una stessa patologia. Il sanitario dunque, se ritiene in scienza e coscienza di discostarsi dalle indicazioni risultanti dalle linee guida, ha il dovere di motivare le sue scelte difformi.
Fonte: Il sole 24 ore, Sanità, 27/06/2005 – Edilberto Ricciardi – Avvocato