I Paesi dell’Est stanno lentamente morendo. Infatti mentre l’Onu denuncia in queste regioni sempre più decessi a causa dell’Aids, in Russia il crollo demografico sta assumendo proporzioni devastanti. Il dato che salta agli occhi non è la diminuzione delle nascite, dato imputabile a una sorta di “europeizzazione” del Paese, ma l’aumento senza precedenti delle morti: un record in un Paese industrializzato non devastato dalle guerre o dalla carestia.
L’anno scorso il tasso di mortalità registrato è stato il più elevato degli ultimi 60 anni. In Russia per ogni 100 nuovi nati, muoiono 170 persone: dati che soli bastano a spiegare la situazione che sta vivendo il Paese. All’indomani della dissoluzione dell’Unione sovietica, il 1 gennaio del 1992 la popolazione russa veniva stimata a 148,7milioni.
Secondo le statistiche ufficiali a metà del 2003 era scesa a 144,5 milioni. Le stime più pessimistiche, quelle dell’Unesco, prevedevano che la popolazione russa entro il 2050 potesse scendere a 97 milioni. Di questo passo ci potrebbero arivare anche prima. Immancabile quindi ricercare le cause di questo deficit demografico.
In un articolo sul Washington Post, il demografo ed ex analista della Cia Nicholas Eberstadt analizza le possibili componenti di questo calo demografico, carico di conseguenze sul piano economico, politico e anche militare. A differenza di quello che è accaduto non solo in Europa, ma anche nei paesi del Terzo Mondo, dal 1962 al 2002 in Russia è scesa l’aspettativa di vita, inoltre negli stessi anni è anche salita l’incidenza delle malattie cardiovascolari come causa di morte, mentre diminuiva drasticamente in America, Europa e Giappone. Infine in Russia la percentuale di morti violente è tre volte maggiore rispetto all’Europa, quella dei suicidi addirittura sei. Il dito può essere puntato su molti fattori: sta di fatto che la Russia registra 400mila morti in più all’anno rispetto alla normalità demografica ed economica. Una vera e propria guerra.
E mentre la Russia si trova ad affrontare questo choc demografico, l’Onu ha presentato un documento, preparato dal Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) nel quale si rileva che il mondo ex comunista presenta uno dei tassi di aumento dell’infezione Hiv/Aids più alti del mondo. L’analisi si riferisce a 28 Paesi ex comunisti dell’Europa Orientale e Sud-orientale, del Baltico e della Csi, la Comunità degli Stati Indipendenti che riunisce le Repubbliche dell’ex Urss tranne le tre baltiche. Secondo il documento “un adulto su cento che cammina per le strade di una città dell’Europa Orientale o della Csi è portatore del virus Hiv che causa l’Aids”.
Secondo stime ufficiali, alla fine del 2003 le persone contagiate in queste regioni erano più di un milione e 800 mila. L’anno scorso il numero delle nuove infezioni è cresciuto rapidamente in Estonia, Lettonia, Bielorussia, Ucraina e Moldavia. Secondo l’Onu vi è “un legame diretto fra la riuscita transizione democratica di un Paese e la capacità dei governi e della società civile di affrontare l’Aids”.
Il direttore dell’Undp, Mark Malloch Brown, è convinto che “informazione, lotta all’emarginazione e chiarezza di direttive siano i tre fattori chiave nel determinare la risposta all’Hiv/Aids”. Per Brown c’è un’unica soluzione: “Per contenere l’epidemia è necessario che vi siano cittadini informati che non discriminino le persone affette da Hiv/Aids. Alcuni Paesi (Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia) hanno già ottenuto importanti successi nel bloccare o addirittura far recedere l’epidemia. E non è un caso che questi Paesi siano anche quelli che hanno fatto maggiori progressi nella costruzione di un sistema democratico. Il rapporto Undp rileva inoltre che la diffusione dell’Aids può influire negativamente sullo sviluppo economico-sociale. La mortalità precoce in classi d’età maggiormente produttive può ridurre la crescita annuale del Pil dell’1%, “un colpo tremendo per qualsiasi Paese”.