Il governo approva il ddl sulle droghe azzerando risultati ed esperienze di anni di lotta alla droga nel nostro paese. Si va in carcere anche per pochi spinelli. Secondo Fini i milioni di italiani che fanno uso della più varie droghe illegali sono tossicodipendenti incapaci di intendere e di volere che vanno difesi da se stessi. Con il bastone della galera o con la «carota» della comunità coatta, dell’obbligo al lavoro «socialmente utile», del ritiro della patente (motorini compresi), del passaporto o (se immigrati) del permesso di soggiorno. Questo è il principio centrale del disegno di legge sulla «disciplina degli stupefacenti» proposto da Gianfranco Fini e accolto ieri con unanime entusiasmo dal consiglio dei ministri. Un principio per niente nuovo, che tuttavia in questa articolazione legislativa aggiunge aspetti di inquietante modernità all’impianto vetero-proibizionista della legge Jervolino-Vassalli del `90. Quella legge era peraltro stata azzoppata da un referendum popolare, che nel 1993 aveva abolito le sanzioni penali sul consumo personale di droghe, restituendo alla magistratura il compito di distinguere con adeguate indagini tra spaccio e consumo. Proprio da qui parte Fini, nella relazione introduttiva al suo progetto, denunciando un’insopportabile «incertezza sul piano delle sanzioni». La corte di Cassazione, spiega Fini, ha perfino considerato «non punibili il possesso di 40 grammi di cocaina o la cessione di droga finalizzata al consumo di gruppo». Questo non è evidentemente tollerabile, perché chi detiene 40 grammi di cocaina è un pericolo sociale anche se si limita a consumarla. Dunque sarà bene tornare, come faceva la vecchia Jervolino-Vassalli, ad appioppare la qualifica automatica di spacciatore a chi detiene più di una certa quantità di droghe precisamente stabilita in una tabella di riferimento. Dal giorno in cui il testo di Fini dovesse diventare legge sarà pertanto ritenuto spacciatore d’ufficio chiunque venga trovato in possesso di più di 500 milligrammi di cocaina, 200 di eroina, 300 di ecstasy e 250 di Thc (il principio attivo «stupefacente» contenuto nella cannabis). C’è da notare che una volta esistevano tabelle diverse per le droghe cosiddette leggere e per quelle pesanti. Oggi non più, dice raggiante Fini, dato che è stata eliminata «ogni fuorviante distinzione fra droghe leggere e droghe pesanti». «La `leggerezza’ di alcune droghe – prosegue il vicepresidente del consiglio – semplicemente non esiste: lo ‘spinello’ (e in generale i derivati della cannabis) che dieci anni fa aveva un principio attivo che non superava l’1,5%, oggi viene reperito anche al 15% se non oltre, e in questo modo moltiplica i suoi effetti devastanti e progressivamente irreversibili sulla psiche e sul fisico». Da valutazioni di questo spessore (che detto per inciso sono scientifiche come affermare che la terra sta immobile al centro dell’universo o che la masturbazione provoca la cecità) non discende comunque che chi ha qualche grammo di fumo in tasca rischi vent’anni di galera come un grande trafficante. Fini si sta molto impegnando a dimostrare che la sua è una repressione dal volto umano, e perciò il testo prevede che per «fatto di lieve entità», come già avveniva in passato, i tribunali possano essere clementi e applicare pene che variano «solo» da uno a sei anni. In tutti gli altri casi, invece, per qualsiasi tipo di droga si rischiano da sei a vent’anni. Si può qui rilevare che l’unificazione delle pene per tutte le sostanze ha l’effetto di ridurre da 8 a 6 anni la pena minima per gli spacciatori di eroina, mentre innalza quelle massime per il traffico di droghe leggere. Bel colpo. Ma, d’altra parte, anche senza finire nella categoria degli spacciatori conclamati non c’è da scherzare, perché già le sanzioni amministrative stabilite per scoraggiare il consumo minimale (ritiro di passaporto ecc.) possono produrre effetti ben più devastanti di quelli del pericolosissimo spinello. Le mostruosità non sono finite, perché una degli obiettivi di fondo del giro di vite proposto da Fini è quello di valorizzare il «recupero». Protagoniste di questa fase dovranno essere le comunità (vedi alla voce San Patrignano), che non saranno più costrette a richiedere inutili autorizzazioni ai servizi pubblici, ma potranno in proprio «certificare la dipendenza da droga e predisporre il piano terapeutico». E grazie alla maggiore libertà di azione potranno anche più facilmente stipulare proficue convenzioni con lo stato o gli enti locali per i trattamenti proposti come alternativa al carcere. Il tossicodipendente condannato a pene fino a sei anni (oggi sono quattro) avrà così maggiori possibilità di scelta tra la galera semplice e la comunità. Neppure Fini, però, ha l’ardire di proporre l’invio in comunità di tutti gli «sventurati» che si fanno le canne. Loro, se non si sentono pronti per Muccioli, potranno optare per un lavoro di «pubblica utilità per l’intera durata della pena detentiva». Che il lavoro nobiliti, del resto, non è un’invenzione di Fini.