L’Aids cambia faccia. I ceppi non-b si fanno strada in Italia, provenienti da dall’Africa e dall’Asia. È questa la nuova frontiera della lotta all’Hiv che preoccupa gli esperti. Nonostante l’incidenza del virus sia in netto calo (oggi sono 120mila, fra sieropositivi e malati, le persone infettate in Italia, con 3500-4000 nuovi casi l’anno) nessuno è mai guarito e si è lontani dalla concreta realizzazione di un vaccino efficace. Il 50 per cento dei pazienti fa il test quando la malattia è già conclamata, e il 10 per cento dei sieropositivi in cura, cioè 5000 persone in Italia, ha esaurito tutte le opzioni terapeutiche. Sono questi alcuni dei dati allarmanti contenuti nel volume “L’Aids in Italia venti anni dopo”, edito da Masson e presentato il 28 aprile scorso presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche di Roma. “Il volume ha l’obiettivo di riportare all’attenzione generale un problema mai scomparso verso il quale si è però abbassata la guardia”, ha spiegato Ferdinando Dianzani, autore del libro e professore ordinario di virologia all’Università Campus Bio-Medico di Roma.
La prima novità fra i dati presentati riguarda la struttura del virus. Non più solo ceppi di tipo b, ma anche non-b, di origine africana, del Sud-est asiatico, della Russia e dell’Europa dell’Est, che possono ricombinarsi fra di loro in uno stesso individuo. In poche parole, una persona può andare incontro a più infezioni da parte di più tipi di virus, che si sovrappongono a quello originale. “L’Hiv è molto plastico e muta continuamente, i frammenti genetici possono passare da un ceppo a un altro, dando luogo a dei supervirus”, precisa Mauro Moroni, ordinario di malattie infettive e tropicali all’Università degli Studi di Milano. “Si tratta per ora di casi sporadici e quindi non è possibile avere una statistica precisa, ma bisogna continuare con la ricerca prima che il fenomeno avanzi”. L’incidenza di questi ceppi è diversa da nazione a nazione e da regione a regione in base ai flussi migratori. Per esempio, in Toscana si registra un 30 per cento di forme mutanti, cioè un sieropositivo su tre ha un ceppo non-b, mentre in Lombardia è il 12 per cento.
È allarme anche sul ritardo nelle diagnosi. Molti eseguono il test quando il virus è già in fase avanzata oppure, dopo aver scoperto di essere sieropositivi, tardano a rivolgersi ai centri specialistici per le cure. Su 968 pazienti presi in esame dallo studio Icona, infatti, il 26 per cento si è sottoposto alla prima visita specialistica più di sei anni dopo aver effettuato il test. Un ritardo che nel 40 per cento dei casi significa arrivare alla visita medica con l’infezione ormai in stadio avanzato. “Le persone che non si presentano per la valutazione clinica subito dopo il test sono per lo più giovani, infettati per uso di droga, disoccupati, gente che non è stata adeguatamente informata dopo il primo test positivo”, spiega Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive Spallanzani di Roma. “Invece, le persone che eseguono tardi il test, ormai a infezione avanzata, sono in maggioranza adulte e contagiate per via sessuale”.
A mutare dunque non è solo il virus ma anche le sue modalità di trasmissione e la percezione del rischio. Mentre diminuiscono i casi di infezione osservati nei tossicodipendenti, aumentano quelli dovuti a trasmissione sessuale, per lo più nelle persone di età media (40 anni per gli uomini, 38 per le donne) che sembrano essere quelle meno attente. Il 70 per cento degli eterosessuali adulti, infatti, scopre di essere sieropositivo troppo tardi, quando è già malato di Aids, mentre la percentuale si riduce al 20 per cento per i tossicodipendenti.
Resta dunque forte la necessità di proseguire nella ricerca: “Ci sono dei sieropositivi, il 10 per cento dei pazienti in trattamento, che hanno sviluppato delle resistenze a tutti i farmaci”, continua Moroni, “e per questa fetta di mercato limitata ci aspettiamo che l’industria farmaceutica sperimenti medicinali nuovi”. Ma fondamentale è anche la prevenzione e l’informazione. L’infezione da Hiv si sta diffondendo nei paesi dell’ex blocco sovietico, soprattutto tra tossicodipendenti e prostitute: 2400 casi su un milione di abitanti in Estonia, oltre 1800 nella Federazione russa, 1000 in Ucraina e Lettonia. Un’epidemia che, con l’apertura delle frontiere europee, potrebbe mettere a rischio l’Italia, “se non si metteranno a disposizione di questi paesi le conoscenze e l’esperienza già acquisite nei paesi occidentali”, concludono gli autori del libro.