Si allarga l’orizzonte delle possibili applicazioni terapeutiche della cannabis. La nuova strada da battere è quella nel campo della lotta al cancro. La ricerca sugli effetti terapeutici della cannabis ha già fruttato impieghi nella terapia del dolore, nella riduzione degli effetti secondari delle chemioterapie e dei disturbi correlati all’Aids, nel contenimento della spasticità muscolare causata dalla sclerosi multipla. All’origine di tutto, la scoperta all’inizio degli anni Novanta dei cosiddetti endocannabinoidi, sostanze prodotte dall’organismo umano e nella gran parte degli animali che si legano agli stessi recettori dei cannabinoidi, sostanze contenute nella canapa.
“Il ruolo degli endocannabinoidi nella fisiologia animale non è ancora del tutto chiaro. Quello che si è capito è che costituiscono un sistema di segnalizzazione chimica che si attiva in condizioni patologiche o di forte stress”, dice Vincenzo Di Marzo, coordinatore dell’Endocannabinoid Research Group del Cnr di Napoli. Proprio in questi giorni, il gruppo di ricerca napoletano, di cui fa parte anche il Prof. Maurizio Bifulco dell’Università di Salerno, ha presentato al congresso internazionale organizzato a Colonia dalla International Association for Cannabis as Medicine i risultati di uno studio sulle potenzialità degli endocannabinoidi nel contrasto della crescita e diffusione dei tumori.
Una delle domande che i ricercatori si posero era se il sistema endocannabinoide potesse interagire a livello cellulare con la crescita delle cellule tumorali. Una prima risposta giunse verso la fine del decennio scorso da uno studio condotto dai ricercatori partenopei su cellule tumorali della mammella. I risultati mostrarono che l’anandamide, un endocannabinoide, inibisce selettivamente la proliferazione delle cellule cancerose, senza intervenire su quella di altre linee cellulari. Uno stop al tumore, dunque. Negli stessi anni, in Spagna, un altro gruppo di ricerca tentò con successo un’altra via: l’induzione dell’apoptosi, cioè la morte cellulare programmata nei gliomi maligni (un tipo di tumore cerebrale) mediante somministrazione di Thc (il principale principio attivo presente nella cannabis). E ottenne perfino una regressione della massa tumorale.
“Negli ultimi anni” racconta Di Marzo “ci siamo mossi in nuove direzioni. Partendo dall’osservazione che in alcuni tumori, come i carcinomi colorettali, il sistema endocannabinoide risultava alterato, abbiamo lavorato per inibirne la degradazione. E abbiamo visto che così facendo si riusciva a fermare la proliferazione delle cellule tumorali. Inoltre, per altri tipi di tumore, il nostro gruppo di ricerca – parallelamente a quello spagnolo – ha evidenziato un effetto del sistema endocannabinoide in grado di bloccare la neoangiogenesi (la formazione di nuove strutture vascolari che permettono la proliferazione delle cellule neoplastiche, n.d.r.). In particolare, nel caso di tumori particolarmente aggressivi e di metastasi abbiamo rilevato un’efficacia accresciuta di questa strategia”.
Ricerche promettenti, dunque. Ma per ora limitate alla sperimentazione animale, nella quale la somministrazione intratumorale degli endocannabinoidi si è dimostrata efficace. Però non è detto che questa via rimanga valida anche negli esseri umani. Il problema della somministrazione, in ambiti terapeutici diversi da quello dei tumori, come nella terapia del dolore, sta trovando nuove soluzioni. “Per evitare gli effetti negativi del fumo”, spiega Di Marzo, “sono stati sviluppati dei vaporizzatori sottolinguali a base naturale, che consentono tra l’altro una somministrazione più mirata del farmaco”.
Le prospettive aperte da queste ricerche sono tuttavia vincolate dal pregiudizio comune nei confronti della Cannabis, considerata nel nostro paese alla stregua di una droga. Mentre altrove, per esempio in California, Gran Bretagna, Canada e Olanda, alcuni usi terapeutici della Cannabis sono già in fase di sperimentazione clinica.