Grazie ai nuovi farmaci l’AIDS fa meno paura, manca però ancora un vaccino in grado di controllare il diffondersi della malattia nei paesi in via di sviluppo. Un intervista con Giuseppe Pantaleo.A che punto è la ricerca? Lo abbiamo chiesto ad uno dei luminari del settore, il professor Giuseppe Pantaleo dell’Ospedale universitario di Losanna. Attivo all’Ospedale universitario di Losanna, Pantaleo dirige il Laboratorio d’immunopatologia dell’AIDS che collabora con il consorzio europeo EuroVac.
Professor Pantaleo, lei è una delle personalità di spicco nel campo della ricerca dei vaccini contro l’AIDS. Cosa prova sapendo che le speranze di tante persone e l’attenzione dell’opinione pubblica sono legate ai risultati del suo lavoro?
Guardi, a mio avviso c’è qualcosa da chiarire. Gli studi sul vaccino sono in una fase preliminare e sono complicati dal fatto che ignoriamo ancora molte cose. Tanto per fare un esempio, molti dei meccanismi che inducono una risposta immunitaria sono ancora un mistero. Alcuni miei colleghi sono quindi dell’avviso che non sia giusto dare tutto questo spazio nei media agli studi sul vaccino.
Io penso che la ricerca in questo campo debba andare avanti ad ogni costo. Anche se forse non arriveremo a sviluppare un vaccino efficace, sicuramente allargheremo le nostre conoscenze sul funzionamento del sistema immunitario. È vero, abbiamo una grossa responsabilità nei confronti dell’opinione pubblica, ma ripeto, siamo coscienti dei nostri limiti e a mio avviso qualsiasi progetto che viene portato avanti sarà sempre un contributo importante alla ricerca, anche se non giunge a risultati applicabili in un contesto clinico.
Negli ultimi anni si susseguono gli annunci di nuovi farmaci, nuove cure, nuovi vaccini… Non c’è il rischio di disseminare false speranze e di banalizzare la malattia? Quale dovrebbe essere a suo avviso il giusto rapporto tra divulgazione e ricerca?
È necessario fare una distinzione. Il vaccino è ancora lontano, ci vorranno degli anni per metterlo a punto. Inoltre non sappiamo come indurre degli anticorpi in grado d’impedire l’entrata del virus HIV. Stiamo quindi lavorando su dei vaccini che stimolano una risposta cellulare. In altre parole il vaccino dovrebbe spingere alcune cellule, come i linfociti-T, ad eliminare o perlomeno a controllare le cellule infettate dal virus. Non ci aspettiamo dunque che il vaccino sia in grado di prevenire l’infezione. Una volta contagiato tuttavia, chi era stato vaccinato dovrebbe riuscire a bloccare la riproduzione del virus e quindi a tenere l’infezione sotto controllo.
Per quanto riguarda le terapie, i messaggi non sono falsi, nel senso che le terapie hanno radicalmente cambiato il quadro clinico della malattia. L’AIDS è passata da malattia che portava alla morte in breve tempo a malattia cronica. Oggi la sopravvivenza a partire dal momento dell’infezione è di 15-20 anni se non di più. Quindi da un punto di vista terapeutico i progressi che sono stati fatti sono davvero incredibili.
Il problema non sono le presunte false informazioni, il problema è che sulla base dell’efficacia della terapia – che è reale – la gente ha cominciato ad abbassar la guardia e quindi prende molti più rischi di quanti non prendesse qualche anno fa quando non c’erano farmaci disponibili e la sopravvivenza era molto limitata nel tempo. E il risultato è l’aumento di nuovi casi che stiamo vivendo da due o tre anni a questa parte. Le istituzioni dovrebbero tornare a lanciare delle campagne di prevenzione estremamente aggressive, cosa che negli ultimi anni è stata completamente abbandonata.
Non solo i casi di AIDS, anche i casi di sifilide sono in aumento. Perché la prevenzione non funziona più?
Nella testa della gente c’è la consapevolezza di avere a disposizione una terapia che ha una certa efficacia. Negli anni Ottanta i gruppi a rischio hanno visto morire molti amici, molte persone care che vivevano accanto a loro. Da sei o sette anni questa situazione non c’è più. Si può dire che da un punto di vista sociale ci sia stata una sdrammatizzazione della malattia. Prima i malati di AIDS dovevano assolutamente tenere nascosta la loro infezione per non essere discriminati.
Oggi c’è una «normalizzazione» dell’AIDS, una malattia che non è poi tanto differente da altre infezioni virali come l’epatite C o B.
Questo è vero per la nostra società occidentale, ma si può dire la stessa cosa per l’Africa o l’Asia, dove mancano i soldi per le terapie?
Questo è un punto molto importante. Io direi che oggigiorno il problema dell’AIDS non sussiste o perlomeno è estremamente limitato e ben controllato nei paesi occidentali.
Il problema grave è nei paesi in via di sviluppo, dove in alcuni casi ci sono delle percentuali di sieroprevalenza che si aggirano intorno al 25-30% e che riguardano soprattutto una popolazione molto giovane.
Lei afferma che da un punto di vista medico, l’AIDS è una malattia come tutte le altre, perché ci sono degli strumenti terapeutici per contrastarla. Resta il problema degli effetti collaterali e dei costi di queste terapie …
I farmaci antiaids sono efficaci. Certo non è facile per un sieropositivo mantenere per anni un’aderenza ottimale alla terapia. Ad ogni modo sfido chiunque a trovare un farmaco che non abbia effetti collaterali. Certo, questi effetti possono essere più o meno gravi, ma è difficile che interferendo con il funzionamento di una parte dell’organismo, ad esempio le cellule, non ci siano delle disfunzioni associate.
Per quanto riguarda i costi bisogna partire da una constatazione: le compagnie farmaceutiche sono delle compagnie private e uno degli obiettivi principali delle iniziative private è raggiungere dei benefici economici. Domandare ad una compagnia di rinunciarvi non ha senso. È vero che le terapie costano, ma è vero anche che, se tutto va bene, per portare un farmaco dal laboratorio alla licenza di distribuzione ci vogliono circa 200 milioni di dollari.
Certo, quando il farmaco è approvato e registrato, nel giro di un paio d’anni questi soldi si recuperano. Il problema è il rischio iniziale legato alla ricerca, con degli investimenti che devono essere fatti senza la certezza di ricavarne dei benefici.
Il virus HIV ha molti sottotipi. Voi studiate un vaccino preventivo per il tipo C, diffuso in Africa e per il tipo B, diffuso in Occidente. Per il B prevedete di sperimentare anche un uso terapeutico del vaccino. Perché questo non si farà per il C?
I vaccini VAC-C e VAC-B fanno entrambi parte di programmi preventivi. Perché? Per un motivo molto semplice: se si vuole avere un impatto nelle zone più colpite, quello che si deve fare è prevenire o controllare non certo curare. Curare è già possibile farlo riuscendo a mettere a disposizione in un modo o nell’altro dei farmaci. Quello che è indispensabile nei paesi in via di sviluppo è bloccare la trasmissione.
Ora, per il VAC–B noi non abbiamo la priorità di fare un programma preventivo, la nostra priorità è di vedere se il nostro vaccino può essere utile nei paesi in via di sviluppo. Vogliamo però vedere se il VAC-B può essere utilizzato anche a livello terapeutico, quindi in soggetti già infettati. Perché non lo facciamo anche per il C? Per un motivo molto semplice. Per la sperimentazione a livello terapeutico c’è bisogno di soggetti ben controllati, che seguono una terapia antivirale da molto tempo. Nei paesi in via di sviluppo è difficile trovare queste condizioni.
Se anche noi volessimo andare in Africa con il vaccino terapeutico non sarebbe possibile. Non è che non lo facciamo perché siamo interessati ai paesi ricchi. E poi a mio avviso per avere un impatto forte in Africa serve un vaccino preventivo, col terapeutico non si fa niente.