Quello che alle donne non dicono

Sebbene negli uomini e nelle donne l’AIDS sia sostanzialmente la stessa malattia, una combinazione di fattori sociali, psicologici, e fisiologici, caratterizzano l’infezione da HIV/AIDS nelle donne, suggerendo la necessità di un approccio particolare nelle donne sieropositive. Un articolo pubblicato su DELTA 12, completo della bibliografia.La probabilità che una donna sieropositiva riceva, sia in grado di aderire, e risponda al trattamento, è differente rispetto agli uomini. Esistono inoltre una serie di fattori che complicano l’accesso e l’aderenza al trattamento nelle donne. Le differenze di genere rispetto al numero di CD4+ ed alla carica virale potrebbero inoltre rappresentare il razionale per una revisione delle linee guida, originariamente disegnate pensando ad una popolazione prevalentemente maschile. I medici dovrebbero essere maggiormente consapevoli delle implicazioni relative alle differenze di genere rispetto all’evoluzione verso la malattia, la risposta al trattamento, e l’efficacia dei nuovi farmaci antiretrovirali. La diagnosi precoce dell’infezione da HIV e dell’AIDS potrebbe addirittura portare ad una definizione specifica di AIDS in base al genere, mentre lo sviluppo di farmaci da assumere una volta al giorno, farmacologicamente sicuri, tollerabili, e con un profilo di resistenza specifico potrebbero migliorare l’aderenza, sia negli uomini sia nelle donne.

All’inizio, si pensava che l’epidemia di AIDS colpisse soprattutto gli uomini. Durante i primi anni ’80, quando la malattia colpiva soprattutto le grandi metropoli, erano emerse, infatti, alcune costanti generali, e l’AIDS era descritta come una condizione specifica degli omosessuali.[1] In seguito, la trasmissione dovuta agli emoderivati utilizzati dagli emofilici, e allo scambio di siringhe tra i consumatori di sostanze illegali per via iniettiva, portò ad un aumento dei casi di AIDS. Più tardi, fu osservato un aumento dei casi di AIDS nelle donne che avevano relazioni stabili con tossicodipendenti e/o uomini bisessuali.[2]

Adesso, le stime dello United Nations Program on HIV/AIDS e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, dicono che la maggioranza delle trasmissioni avviene tramite rapporti sessuali non protetti, e che, nel 70% dei casi, si parla di rapporti eterosessuali. [3] Attualmente le donne sono considerate la popolazione a maggior rischio di infezione, e la trasmissione eterosessuale è considerata la principale fonte di trasmissione del virus HIV nelle donne.[4]

Contemporaneamente all’aumento dei casi d’infezione tra le donne si osserva una tendenza alla dispersione geografica dei nuovi casi nei piccoli centri[2,5], dove il livello dell’offerta sanitaria è significativamente inferiore. Uno studio sulle donne sieropositive nel Midwest rurale degli Stati Uniti concludeva che solo 167 (60%) delle 279 donne oggetto dello studio ricevevano una visita medica ogni sei mesi.[6] A causa della distribuzione della malattia nei primi anni dell’epidemia, gli uomini, le persone che vivono nelle città, e le persone ad alto rischio, hanno maggiori probabilità di accedere ai servizi sanitari e/o di supporto rispetto alle donne, alle persone che vivono nei centri rurali, ed alle persone a basso rischio.[5,7] Tuttavia, le donne sieropositive e le donne a rischio d’infezione dichiarano di avere una maggiore necessità di servizi sociali, come ad esempio i centri di igiene mentale, per far fronte agli effetti negativi dell’HIV sulla vita di tutti i giorni, all’isolamento sociale, e alla depressione.[8]

L’AIDS colpisce principalmente i neri, globalmente e negli Stati Uniti.[9] Tale tendenza rimane invariata nelle donne. Negli Stati Uniti le afro-americane rendono conto della maggioranza dei casi di AIDS tra le donne[4] ed il maggior numero di casi riguarda le adolescenti.[4,10] Alcuni ricercatori ritengono che un tratto genitale immature potrebbe favorire la trasmissione del virus HIV.[10] Le giovani donne tendono inoltre ad avere relazioni con uomini più grandi, come dimostrato, ad esempio, da uno studio brasiliano.[2] L’aumento delle infezioni da HIV nelle giovani donne porta ad una maggiore riduzione dell’attesa di vita nelle donne rispetto ai maschi.[11] Inoltre, la mortalità per AIDS è maggiore nelle donne rispetto agli uomini.[2]

Sebbene gli studi non diano risposte univoche in tal senso, [12] sembra che le donne abbiano una maggiore propensione a progredire verso la malattia, e muoiano prima degli uomini. Il ritardo nella diagnosi HIV+ potrebbe spiegare per quale ragione le donne progrediscano più rapidamente degli uomini verso l’AIDS. Un numero sempre maggiore di donne contrae l’infezione, e il risultato è un aumento della morbilità e della mortalità, dovuta al ritardo della diagnosi e/o del trattamento.[2] Identificare quali siano le donne «a rischio» è un passaggio cruciale per garantire un trattamento adeguato. Uno studio condotto a Baltimora ha dimostrato che le donne che usano crack e/o cocaina, indipendentemente dal fatto che la sostanza venga iniettata, potrebbe correre maggiori rischi, vista la tendenza ad ingaggiare pratiche sessuali ad alto rischio e ad avere molti partners.[13] Ciò dimostrerebbe che il numero di donne a rischio sarebbe molto superiore a quanto non si pensasse un tempo.

Infezione da HIV e AIDS nelle donne

Esistono differenze significative rispetto alla progressione verso l’AIDS e al decorso della malattia tra uomini e donne. In generale, al momento della sieroconversione, le donne hanno un numero di cellule CD4+ maggiore.[14] Tale differenza rimane costante nel corso dell’infezione e al momento della morte per AIDS.[15,16] Ciò potrebbe significare che le donne potrebbero progredire più facilmente degli uomini verso la malattia.[17]

Le donne tendono ad avere una carica virale inferiore a quella degli uomini, in particolare nelle prime fasi dell’infezione da HIV, [18,19] anche se tale differenza tende a scomparire nel corso del tempo.[20] Inoltre, la concentrazione plasmatici di HIV RNA potrebbe essere inferiore nelle donne, indipendentemente dalla durata dell’infezione (Tavola 2).[18,20-24] Il significato clinico delle differenze di genere rispetto alla carica virale rimane tuttora da chiarire. Purtroppo sono stati condotti pochissimi studi per determinare quale sia il momento migliore per iniziare il trattamento nelle donne, [18] e le linee guida attualmente disponibili non prevedono un approccio differenziato in funzione del sesso.[21] Tuttavia, a causa delle evidenti differenze tra i sessi, dovrebbe essere messi a punto meccanismi tali da favorire l’arruolamento delle donne negli studi sui vaccini – e sul trattamento antiretrovirale – per fare in modo che la medesima efficacia sia garantita sia negli uomini sia nelle donne.[25]

Uno dei pochi studi condotti su una popolazione di sole donne, ha considerato il rischio di progressione verso l’AIDS o verso la morte, in base al numero di cellule CD4+ e al numero di copie HIV-RNA per millilitro di sangue, prima dell’inizio della terapia HAART.[26] Al termine dello studio i ricercatori raccomandavano di aspettare fino a che il numero di cellule CD4+ fosse compreso tra le 200 e le 350/µL prima di iniziare la terapia HAART nelle donne.

Differenze di genere rispetto alle malattie associate all’infezione da HIV/AIDS

Le malattie definenti-AIDS genere-specifiche stanno diventando sempre più comuni. Di conseguenza, è fondamentale che le donne sieropositive ricevano una visita ginecologica almeno una volta (oppure due volte) l’anno e si sottopongano ad uno striscio vaginale per tenere sotto controllo l’eventuale comparsa di condizioni associate all’HIV.

E’ stato inoltre segnalato un sensibile aumento dei tumori alla cervice dovuti a papillomavirus (HPV) nelle donne sieropositive [27,28], anche se non è ancora del tutto chiaro quale sia il ruolo dell’infezione da HPV nell’oncogenesi cervicale.[27-29] HIV e immuno-soppressione potrebbero facilitare l’infezione da HPV e la sua persistenza; viceversa, l’immuno-ricostituzione associata al trattamento antiretrovirale potrebbe tenere a freno i tumori cervicali associati all’HIV [27], e la ricomparsa di neoplasie cervicali potrebbe essere minore nelle donne che ricevono la terapia HAART.[29] Tuttavia, poiché la concentrazione dei farmaci antiretrovirali nel tratto genitale potrebbe essere sub-ottimale, la combinazione dovrebbe essere selezionata con particolare attenzione per evitare l’emergenza di ceppi resistenti.[30]

Sulla base di uno studio il cui scopo era definire le caratteristiche cliniche della progressione verso la malattia nelle donne sieropositive, la candida esofagea e la Pneumocystis carinii (PCP) sarebbero le condizioni definenti AIDS più frequenti nelle donne.[31] La ricomparsa dell’infezione da Candida potrebbe essere perciò un marcatore precoce dell’immuno-soppressione.[10] Gli aspetti fisiologici del tratto genitale femminile, oltre ai fattori ormonali, potrebbero spiegare per quale ragione vi sia una maggiore frequenza di Candida vaginale nelle donne sieropositive.[31] Prima che fossero disponibili la terapia HAART e i trattamenti specifici per il trattamento della PCP, la Pneumocystis carinii era meno frequente nelle donne sieropositive rispetto agli uomini HIV+.[32]

Trattamento

L’efficacia della terapia antiretrovirale potrebbe essere differente nelle donne. In uno studio sugli analoghi nucleosidici che prevedeva l’uso di zidovudina (AZT), le donne avevano minori probabilità di raggiungere uno degli endpoint dello studio (riduzione delle cellule CD4+ del 50%, AIDS, o morte) rispetto agli uomini.[33] Una sottoanalisi dimostrò che le donne mai trattate in precedenza rispondevano peggio alla mono-terapia.[33]

I fattori di genere potrebbero giocare un ruolo rispetto alla stessa probabilità di ricevere il trattamento antiretrovirale. Uno studio condotto su un campione di pazienti nordamericani ha dimostrato che le donne hanno minori probabilità degli uomini di ricevere una terapia HAART.[34] Sulla base dei dati diffuse dal programma Medicaid della Florida circa il 57% degli uomini (ma solo il 27% delle donne) HIV+ o con AIDS ricevono due analoghi nucleosidici, e il 30% degli uomini (ma solo il 12% delle donne) ricevevano una combinazione contenente un inibitore della proteasi.[34] Tali differenze non sembravano associate ad alcuna variabile di genere rispetto alla presentazione della malattia nel campione esaminato, alla riluttanza del medico nel prescrivere il trattamento antiretrovirale durante la gravidanza, alla scolarità delle pazienti o al costo del trattamento.[34] Viceversa, erano i fattori socioeconomici (come il costo dei trasporti, oppure i problemi legati all’allevamento della prole) a giocare un ruolo centrale nel limitare l’accesso a cure appropriate da parte delle donne, oppure alla loro decisione di intraprendere il trattamento.[35] Inutile dire che qualora il numero delle donne in trattamento aumentasse vi sarebbe una riduzione della mortalità ed un generale aumento dell’aspettativa di vita tra le donne sieropositive.[34]

Le donne che iniziano la terapia HAART sembrano aderire meglio al trattamento. Sulla base di uno studio condotto su un campione di persone in trattamento solo il 38% degli uomini era aderente al trattamento dopo 3, 6, 9, e 12 mesi di terapia, rispetto al 67% delle donne.[34,36] Nello spiegare i motivi di non-aderenza le donne riportano le seguenti ragioni: effetti collaterali, relazioni sociali, mancanza di fiducia nell’efficacia dei farmaci, una vita caotica, e la comparsa di alterazioni dell’immagine corporea (come ad esempio l’ingrossamento del seno) associate, in modo particolare, agli inibitori della proteasi.[37]

Uno studio recente su un gruppo di donne con HIV/AIDS che stavano allevando i propri figli, osservò percentuali di aderenza particolarmente basse, comprese tra il 43% ed il 56%.[38] Le ragioni riportate dalle donne arruolate, oltre a quelle già elencate in precedenza, includevano l’uso di alcool, lo stress eccessivo, le responsabilità associate alla cura dei figli, e la mancanza di fiducia nel risultato della terapia. E’ evidente come alcuni fattori, come l’effetto del trattamento sull’aspetto esteriore e le difficoltà nell’armonizzare la terapia con la cura dei figli, potrebbero avere un maggiore impatto nelle donne rispetto a quanto avvenga negli uomini, e potrebbero rappresentare un fattore determinate, in grado di interferire con l’aderenza al trattamento.[37]

La terapia HAART potrebbe essere associata alla comparsa di effetti collaterali differenti nelle donne. Le donne sembrano essere più esposte agli effetti collaterali gravi e/o alle manifestazioni associate alla tossicità dei farmaci.[39] Ad esempio, l’acidosi lattica e l’ingrossamento del fegato si manifestano più comunemente nelle donne in trattamento con analoghi nucleosidici, sia che gli NRTI vengano assunti da soli oppure in combinazione con altre classi di farmaci. Per meglio comprendere quali siano le ragioni, e i fattori associati a tali differenze sarebbero tuttavia necessari ulteriori studi.[39] Sono state inoltre riportate differenze di genere nella re-distribuzione dei grassi (lipodistrofia), associate all’infezione da HIV o all’uso di inibitori della proteasi.[40,41] Per esempio, la redistribuzione dei grassi, come ad esempio l’ingrossamento del seno oppure della vita, potrebbe essere più frequente nelle donne, indipendentemente dalla presenza degli inibitori della proteasi nella combinazione.[42] Inoltre, l’alterazione del livello dei lipidi, associato all’uso degli inibitori della proteasi, è più pronunciato nelle donne rispetto agli uomini, Di conseguenza, in corso di terapia antiretrovirale, le donne sieropositive sembrano perdere parte della naturale protezione, tipica del sesso femminile, rispetto all’arteriosclerosi.[43]

La ricerca sulle terapie innovative – ultima tra tutte la ricerca sui farmaci antiretrovirali – non considera la possibilità che esistano differenze di genere rispetto alla risposta alla malattia e al trattamento. Ad esempio, tali studi si sono occupati raramente delle differenze di genere rispetto alla farmacocinetica, sebbene studi recenti, ed in particolare gli studi sul nuovo inibitore della proteasi atazanavir, avessero arruolato un numero di donne sufficienti per condurre studi di farmacocinetica genere-specifici. Tali studi indicano che l’esposizione al farmaco sarebbe uguale sia negli uomini sia nelle donne.[44] Se utilizzato con altri farmaci once-a-day, l’effetto positivo di atazanavir sul livello dei lipidi, assieme al numero ridotto di compresse, potrebbe contribuire ad alleviare alcuni degli ostacoli associati al trattamento, che nelle donne rendono più difficile aderire al trattamento.

Nella maggior parte dei casi le donne sono soggette alle stesse limitazioni dei maschi. Specificamente, negli uomini e nelle donne, il fallimento al primo regime, vista la possibile emergenza di resistenze virali, limita seriamente le opzioni successive. Nuovi farmaci, che abbiano un profilo di resistenza favorevole, ed un impatto ridotto sui lipidi, sono quantomai necessari. Oltre ad avere una maggiore sicurezza ed efficacia, i nuovi farmaci prevedono un minor numero di assunzioni ed un minor numero di compresse, favorendo una maggiore aderenza ed una maggiore probabilità che il trattamento abbia successo.

Aspetti Psicosociali nelle donne

Nelle donne sieropositive, che generalmente riportano con maggiore frequenza sensazioni di malessere, una minore capacità di affrontare razionalmente il problema, e minori opportunità di contatti sociali e di supporto, l’analisi dei fattori psico-sociali è particolarmente importante.[45] Una possibile spiegazione potrebbe essere che gli uomini sono stati maggiormente coinvolti nel trattamento, e a tutti i livelli, rispetto a quanto sia avvenuto per le donne, che solo da poco considerano l’epidemia di AIDS come un fatto che le riguardi.[45] Uno studio condotto in Australia concludeva che le donne sieropositive sono più scettiche degli uomini rispetto all’efficacia del trattamento.[46] Ciò potrebbe influire sia sulla decisione di iniziare un trattamento antiretrovirale, sia la probabilità (e la capacità) di aderire al trattamento.[37,46]

Nelle donne sieropositive i fattori psicosociali giocano un ruolo fondamentale, sia rispetto alla qualità della vita, sia rispetto alle opportunità di trattamento. Condizioni di povertà potrebbero limitare l’accesso alle cure primarie, la partecipazione agli studi clinici e l’accesso alla terapia.[47] La mancata diagnosi dell’infezione da HIV nelle donne potrebbe essere il risultato delle aspettative di genere o addirittura di forme discriminatorie.[47,48] Una gestione appropriate dell’infezione da HIV nelle donne dovrebbe includere il supporto psicologico e sociale, con l’obiettivo di aumentare l’autostima, favorire le relazioni sociali, le scelte associate alla riproduzione e alla famiglia.[48] La ricerca sociale ha dimostrato che le donne che hanno accesso all’assistenza domiciliare, ad informazioni accurate sui farmaci che stanno assumendo, e al supporto psicologico e sociale, aderiscono meglio al trattamento.[6]

Le donne sieropositive esprimono il bisogno di programmi di supporto, e il desiderio di ricevere maggiori informazioni. In particolare, le donne sieropositive sembrano avere un maggiore bisogno di partecipare a gruppi di auto-aiuto, composti da altre persone sieropositive.[49] Tali programmi dovrebbero essere disegnati come i corsi di empowerment già utilizzati con successo per le donne in gravidanza. Uno studio ha dimostrato che le donne in gravidanza che ricevono corsi di empowerment basati sul supporto professionale e tra pari, informazioni sulla cura di figli, ed un training specifico per imparare ad affrontare e gestire lo stress, riportano una migliore qualità della vita, una maggiore capacità di affrontare i problemi, ed un maggiore adattamento al ruolo di madre, rispetto al gruppo di controllo, che non riceveva tale supporto.[50] Inoltre, la qualità dell’assistenza nel corso dell’infezione da HIV potrebbe avere un effetto diretto sul trattamento e sulla sopravvivenza. Le donne sieropositive in cura presso centri clinici che trattano molti pazienti HIV+ e che hanno maggiore esperienza di trattamento, vivono più a lungo dopo la diagnosi di AIDS rispetto alle donne sieropositive in cura presso centri con una modesta esperienza.[51]

Sebbene il supporto sociale e l’intervento medico potrebbero sembrare due strategie separate, si tratta in realtà di due approcci strettamente correlati. La capacità di adattamento e l’abilità nel far fronte ai problemi sono direttamente associate ad un migliore risultato clinico e ad una significativa riduzione dello stress e dell’angoscia.[52] Lo stress emotivo e sociale potrebbe essere direttamente associato al decorso dell’infezione e alla malattia. Uno studio recente, conclude che i pazienti caratterizzati da un livello di stress elevato, un atteggiamento passivo rispetto alla soluzione dei problemi, livelli elevati di cortisolo, e rapporti sociali insoddisfacenti, tendono a progredire più rapidamente verso l’AIDS. Tali fattori erano fortemente predittivi della progressione verso la malattia, più di quanto non lo fossero i rapporti sessuali ad alto rischio o l’uso di tabacco.[53]

I pazienti hanno bisogno di ricevere supporto psicosociale non solo dagli psicologi e dagli assistenti sociali, ma anche dal personale sanitario. La disponibilità dei servizi di supporto psicosociale, e l’accesso ad informazioni accurate, possono giocare un ruolo chiave rispetto al trattamento. Uno studio che prendeva in esame la relazione di un gruppo di donne sieropositive con il medico di riferimento conclude che l’aderenza al trattamento antiretrovirale è direttamente correlata alle credenze del medico rispetto all’efficacia del regime terapeutico utilizzato.[47] Il medico gioca di conseguenza un ruolo cruciale nell’educare i pazienti, e nell’aiutarli a prendere le decisioni relativi alla cura.

Nelle donne, una condizione socioeconomica disagiata, l’abuso di sostanze, l’abitudine ad accompagnarsi a partners che fanno uso di sostanze per via iniettiva, sono fattori di rischio molto maggiori di quanto non si creda, rispetto alla possibilità di contrarre l’infezione da HIV. Ciò nonostante esistono pochissimi materiali informativi indirizzati specificamente alle donne. Sebbene alcune ricerche abbiano chiaramente indicato la scarsa efficacia degli intereventi informativi sulla popolazione generale nel ridurre i comportamenti sessuali ad alto rischio, uno studio condotto su un gruppo di donne che utilizzavano crack e/o cocaina, e praticavano sesso ad alto rischio, arrivava alla conclusione che strategie educative strategiche e mirate potrebbero essere viceversa efficaci.[13] Vale a dire che programmi educativi mirati potrebbero ridurre il rischio di trasmissione, mettendo le donne in condizione di proteggersi attivamente dalle situazioni ad alto rischio.

La prevenzione dell’HIV nelle donne e nella prole

La prevenzione, uno dei fattori chiave nel far fronte alla diffusione dell’HIV/AIDS, ha già ridotto significativamente sia la prevalenza sia l’incidenza nelle comunità e nei gruppi sociali all’interno dei quali il numero di trasmissioni era inizialmente maggiore.[54] Per esempio, il Senegal, ed alcuni altri paesi africani con poche risorse, e senza accesso ai farmaci, continuano ad avere un numero di infezioni significativamente inferiore rispetto a quello dei paesi vicini. In tali paesi le campagne di prevenzione, tra cui campagne educative sulla malattia rivolte alla popolazione generale, e campagne per l’uso del preservativo, sono iniziate nei primi anni ’80, contribuendo al raggiungimento di tale obiettivo.[11]

Quando non è possibile prevenire l’infezione iniziale, qualora le persone già infettate ricevano un trattamento appropriato, si possono limitare le infezioni secondarie. Sebbene valutare l’efficacia dei diversi tipi d’intervento nelle donne sarebbe assolutamente necessario, esistono pochissime ricerche del genere.[55] Le donne sieropositive dovrebbero ricevere un’educazione specifica rispetto all’inizio della cura e all’importanza dell’adesione al trattamento. Dovrebbero inoltre ricevere informazioni accurate sulla riproduzione e sulla vita sessuale.

Le donne si trovano ad affrontare problemi specifici relative alla gravidanza, al parto, e all’allattamento al seno. Sebbene le gravidanze problematiche non siano necessariamente associate alla sieropositività, favorire la salute della madre e del feto tramite la terapia antiretrovirale, e cure prenatali appropriate, può ridurre significativamente il rischio di trasmissione.[56]

L’aumento del numero delle donne sieropositive in età fertile richiede un’attenta valutazione delle misure di prevenzione della trasmissione materno-fetale.[57] Diversi studi clinici, condotti in tutto il mondo, hanno preso in esame una varietà di interventi, tra cui il trattamento antiretrovirale.[57] Una quantità di studi ha ormai dimostrato che gli antiretrovirali, come zidovudina e nevirapina, possono ridurre il rischio di trasmissione verticale del 50% circa.[58-61] Per tale ragione, un maggiore uso della terapia antiretrovirale in corso di gravidanza potrebbe essere uno degli elementi cruciali per ridurre l’incidenza dei casi di trasmissione materno-fetale.[59]

Uno studio epidemiologico condotto nello stato di New York è giunto alla conclusione che, qualora le madri avessero ricevuto zidovudina per via endovenosa, al momento del travaglio e del parto, e al neonato fosse stata somministrata la zidovudina per via orale nelle sei settimane successive alla nascita, la trasmissione materno-fetale si riduceva del 62%.[61] Qualora non venisse utilizzata zidovudina per via endovenosa al momento del travaglio e del parto, la trasmissione si riduceva in ogni caso del 48- 65%, qualora la zidovudina venisse somministrata al neonato entro le prime 24 ore. La nevirapina, somministrata durante le prime 14-16 settimane di vita riduce il rischio di trasmissione materno-fetale del 50%.[58]

Linee guida specifiche per la gestione delle donne sieropositive in gravidanza sono disponibili su Internet.[62] Il rischio di trasmissione materno-fetale è minimizzato dal trattamento antiretrovirale, qualora il trattamento riduca la carica virale nel plasma materno al di sotto dei limiti rilevabili. Tale strategia è ovviamente possibile solamente in quelle aree del pianeta in cui i pazienti hanno accesso a tutto l’armamentario terapeutico disponibile.

I ceppi resistenti possono essere trasmessi dalla madre al figlio.[63] Per tale ragione si raccomanda che la donna in gravidanza riceva, ove disponibile, un test di resistenza. Ciò garantirebbe, infatti, l’efficacia della cura prescritta alla madre, e la massima prevenzione della trasmissione verticale.[63]

L’infezione da HIV può essere trasmessa tramite l’allattamento al seno.[57,60,64] Raccomandare o no alle donne sieropositive di evitare l’allattamento al seno è un tema particolarmente controverso, poiché ciò priverebbe il neonato dei fattori immunoprotettivi e nutritivi contenuti nel latte materno. Tuttavia l’allattamento al segno espone il neonato ad un rischio doppio di contrarre l’infezione da HIV.[64, 60] In Africa, dove l’allattamento al seno è ancora il sistema migliore per garantire un nutrimento adeguato ai neonati, in particolar modo nelle comunità svantaggiate, qualora si eliminasse l’allattamento al seno, molti neonati potrebbero non essere nutriti adeguatamente. In alternativa, la “sterilizzazione”, o alter tecnologie per la rimozione del virus dal latte materno, potrebbe contribuire alla riduzione della trasmissione verticale.[64]

Conclusioni

Il decorso dell’infezione da HIV e l’efficacia della terapia HAART potrebbe essere differenti nelle donne rispetto agli uomini. Per fare in modo che uomini e donne sieropositivi vivano in salute, e a lungo, sono necessarie maggiori ricerche, una maggiore consapevolezza, e programmi educativi appropriati. Prima di tutto, il criterio per l’inizio del trattamento antiretrovirale, e la dose efficace, dovrebbero essere determinati considerando eventuali differenze tra uomini e donne. Per fare in modo che ciò avvenga, il numero delle donne arruolate negli studi clinici dovrebbe aumentare.

Per garantire una diagnosi di HIV precoce anche nelle donne, è necessario riconoscere l’esistenza di eventi definenti-AIDS genere-specifici. I clinici dovrebbero avere accesso a maggiori informazioni sull’efficacia di nuovi e più potenti antivirali, su un Campione di uomini e di donne statisticamente significativo, in grado di mettere in evidenza eventuali differenze di genere. I medici giocano un ruolo cruciale rispetto alla percezione dell’efficacia del trattamento nelle donne.

I bisogni medici e socio-sanitari espressi dalle donne dovrebbero essere meglio compresi. Una tale conoscenza potrebbe essere efficacemente applicata a programmi di prevenzione specificamente mirati alle donne, e alla valutazione di strategie di gestione della malattia specifiche.

L’infezione da HIV colpisce uomini e donne in maniera differente. Visto il continuo aumento delle infezioni da HIV nelle donne, una maggiore ricerca sulle differenze di genere associate all’infezione da HIV/AIDS fornirà ai clinici il materiale necessario per sviluppare linee guida specifiche per le donne, che potrebbero alla fine risultare assai diverse dalle linee guida correnti, basate su studi condotti, quasi esclusivamente, su uomini.