Falliscono uno dopo l’altro i tentativi di sperimentare i farmaci con i robot o di mescolare molecole con le macchine. Visti gli avanzamenti nella tecnologia software, che bisogno c’è di continuare con i test sugli umani, con tutti i rischi relativi, per i farmaci sperimentali? Basta predisporre dei robot il più simile possibile agli uomini, e saranno loro a sacrificarsi per la scienza. Questo avveniva dieci anni fa: da allora tutti i giganti farmaceutici mondiali hanno investito decine di miliardi per munirsi di questi robot, solo per scoprire che la prova umana o perlomeno animale non ha nulla a che vedere con loro. In una moltitudine di casi, le reazioni registrate sul robot erano diverse da quelle con le cavie, figurarsi con gli uomini. Ci sono voluti anni e un mucchio e di soldi sprecati per capire che la sperimentazione in corpore è insostituibile. Sarebbe stato troppo facile. Altro esempio: visti i sudati progressi tecnologici, perché continuare ad inventarsi sempre nuove formule chimiche per miscelare i farmaci? Basta predisporre delle macchine con la suite di software apposita, che continuamente combinino milioni di molecole fra di loro, e alla fine tirino fuori la formula giusta. La prestigiosa rivista medica britannica Lancet annunciò nel 1995: «La chimica farmaceutica ha intrapreso la sua rivoluzione». Nacquero delle società hitech specializzate nel combinatorial chemistry e Sir Richard Skyes, allora a capo della Glaxo, ne volle fortissimamente comprare una per 500 milioni di dollari. Ancora, niente di tutto questo: le macchine qualche formula azzeccata l’hanno anche indovinata, solo che il farmaco in questione era impossibile da sciogliere in acqua o da trasformare in pillole. Altre volte era composto da così tante molecole che mai uno stomaco umano avrebbe potuto tollerarle e selezionarle. Nel 1999, Robert Lipper, capo scienziato della Bristol Myers, ammise sul giornale Modern Drug Discovery: «Non ne posso più di vedere i miei ricercatori impazzire intorno a formule create dalle macchine che non saranno mai applicabili sull’uomo».
L’elenco di simili costosi fiaschi potrebbe continuare a lungo. Ancora una volta si è verificato che solo l’intuizione e l’esperienza di uno scienziato vero può avviare il processo giusto. Il capo ricercatore della Pfizer, Chris Lipinski, esasperato dalla dissipazione di ricchezze e tempo, nel 2002 dichiarò chiusa l’epoca dei farmaci cercati e provati con le macchine: “Garbage in, garbage out”, sentenziò, e garbage significa spazzatura. Stilò uno schema delle caratteristiche minime che un composto chimico deve avere per essere degno di essere lavorato e riprogrammò in tal senso i computer, che però andavano rigorosamente governati dagli uomini. Ancora oggi questo pacchetto di regole è noto come “Lipinski rule”.
Poco tempo dopo, John Piwinski, vice president per la ricerca della SheringPlough, altro colosso farmaceutico mondiale, mise alla porta – racconta il Wall Street Journal – un imprenditore della combinatorial chemistry: «Si è presentato con un bottiglione e mi ha detto: qui dentro ci sono cinque milioni di composti chimici. Io gli ho detto: spiegami cosa dovrei farci». Piwinski era scottato da un’esperienza di qualche anno prima: «Avevamo fatto degli esperimenti con i robot su un certo enzima anticolesterolo, tutti negativi. Quasi per caso, un ricercatore provò la stessa sostanza su un criceto, e i risultati furono a sorpresa positivi. Ne nacque lo Zetia, un farmaco approvato dalla FDA nel 2002, che ci frutta miliardi di dollari». La casualità gioca la sua parte, né è facile che si ripeta tanto spesso la fortuna di Alexander Fleming, che nel 1928 osservò casualmente che i batteri erano assenti in una certa porzione di un disco da laboratorio e inventò la penicillina, o dello scienziato giapponese Akira Endo che a metà degli anni 70 intuì che dovevano esserci dei funghi che distruggevano il colesterolo, ne testò seimila tipi, modellandoli con le mani, e alla fine diede il via ad un mercato che oggi vale 18 miliardi di euro (lovastatina, simvastatina, provastatina, fluvastatina).
In attesa che le biotecnologie comincino a produrre un flusso davvero continuo di prodotti, la ricerca sembra giunta ad un punto morto: i costi continuano ad aumentare esponenzialmente mentre il numero di nuovi farmaci si riduce. Fra i pochi nuovi prodotti, proprio quelli biotecnologici fanno la parte del leone, ma sono il più delle volte brevettati da piccole aziende di ricerca: la maggior parte dei grandi gruppi farmaceutici mondiali, in tutti i continenti, ha trascorso il 2003 senza aver lanciato neanche un nuovo farmaco. Se si aggiunge che molti brevetti sono in scadenza, si capisce il panico di questi gruppi e la corsa al consolidamento per dividere le spese di ricerca.
Anche perché la sfida delle nuove malattie o di quelle che si stanno dimostrando durissime da vincere come il Parkinson o l’Aids, è tremenda. Altrettanto vero è che sia la Food and Drug Administraton americana sia le analoghe agenzie di tutti gli altri paesi, sono diventate molto più rigide nel concedere le nuove autorizzazioni. La ricerca, è vero, è costosissima, e criteri standard non ne esistono. Proprio dalle nuove tecnologie biotech può venire l’esempio: «Non capisco perché in Italia non si spinge sui cosiddetti cluster, i consorzi di piccoli laboratori scientifici, come invece si fa all’estero», osserva Roberto Gradnik, amministratore delegato dell’Industria Farmaceutica Serono. «E guardate che nel settore biotech le intelligenze che lavorano nel nostro paese non hanno niente da invidiare a nessuno, purché appunto non perdano l’occasione». Ma dallo stesso settore biotecnologico arriva un’altra lezione, che dal punto di vista delle aziende è allarmante: la ricerca di un nuovo farmaco, chimico o biotecnologico che sia, dopo il grande boom degli anni 60 e 70, ormai dura anche venti o trent’anni.