La piaga del precariato colpisce profondamente anche il mondo della ricerca. Le statistiche presentate a Roma durante l’Assemblea dei precari di università e ricerca dal Nidil-Cgil, il sindacato di categoria delle «nuove identità di lavoro» (i cosiddetti lavoratori atipici e interinali), parlano chiaro. Secondo i dati, ancora parziali, raccolti dal Nidil in vari centri di ricerca e università del Lazio (dove si concentra circa il 60% degli addetti alla ricerca pubblica di tutto il paese) il rapporto fra i ricercatori a tempo indeterminato e i precari è in media di almeno 2 a 1, con punte che arrivano anche a un lavoratore fisso ogni due precari (come all’Icram, Istituto centrale per la ricerca applicata al mare). Un elenco sterminato di tipologie «atipiche» di lavoro che comprende contratti coordinati e continuativi, assegnisti di ricerca, dottorandi, borsisti, tempi determinati, stagisti. Riuniti in un torrido scantinato («ma noi siamo abituati a condizioni ben peggiori», faceva notare qualcuno), un centinaio di giovani ricercatori hanno messo in comune le proprie esperienze. Con delle sorprese: all’Isfol (Istituto per lo sviluppo e la formazione dei lavoratori) i precari sono riusciti a ottenere, dopo un anno di trattative con la dirigenza (commissariata), la tutela di diritti fondamentali. Come il diritto alla malattia e alla maternità, che non può più essere causa di rescissione dal contratto, o che l’ente debba giustificare i ritardi nei pagamenti (che normalmente arrivano con 4-5 mesi di ritardo), o il diritto alla certificazione dell’esperienza svolta, ma soprattutto il diritto ad avere una rappresentanza sindacale. Banalità che gli altri precari della ricerca si sognano. «Beati voi che avete almeno il co.co.co.!», esclama Valentina, precaria del Cnr, «almeno voi avete qualche contributo Inps o Inail: da noi ci sono persone che lavorano da 15 anni con contrattini o borse di studio senza aver versato una lira di contributi!». Ma la situazione è anche peggiore: nessuno sa esattamente quanti siano i precari negli enti di ricerca. «Ci manca persino il diritto alla visibilità», dicono. Ma tutti sottolineano come «i precari sono una risorsa fondamentale per la sopravvivenza del sistema università e ricerca». Alessandro Rossi, che ha raccontato la battaglia dell’Isfol, centra il problema chiave: «come fare per collegare tutte le battaglie?» Già, perchè il problema è che ogni ente ha la sua specificità e ogni tipologia di precario ha rivendicazioni diverse. Nidil, con la collaborazione dell’Associazione dottorandi italiani (Adi), ha preparato una bozza di piattaforma sugli assegnisti di ricerca che mira a riconoscere alcuni diritti fondamentali e in prospettiva, come ha sottolineato Augusto Palombini, segretario Adi, punta a trasformare gli assegni in veri e propri contratti nazionali con tutti i diritti e le tutele previsti dalla legge. Non basta: l’obiettivo del Nidil (per bocca di Federico Bozzanca e Francesco Sinopoli) è quello di individuare proposte comuni di «diritti di cittadinanza»: una retribuzione minima per i co.co.co., non inferiore a quella dei lavoratori fissi, il diritto alle ferie e alla malattia, i diritti sindacali. E poi richieste più contingenti: dalla prossima finanziaria sblocco delle assunzioni, eliminazione del limite di spesa per l’assunzione dei lavoratori a tempo determinato e un aumento dei finanziamenti per la ricerca. Proposto anche di destinare una percentuale fissa dei bilanci delle università a bandire i concorsi per i ricercatori. Qualcuno parla di «diritto alla stabilizzazione del posto di lavoro». Ma a molti dei presenti basterebbe anche molto meno. «Conciliare le esigenze di tipologie di precari diverse, in luoghi di lavoro diversi come università e enti di ricerca è complicato», ha concluso Paolo Saracco, dello Snur-Cgil. «Dobbiamo trovare obiettivi e linguaggi comuni. Il primo passo nella giusta direzione però è votare sì al referendum».