È guerra tra le più prestigiose università americane e i colossi dell’editoria scientifica. Le biblioteche di Harvard e Cornell hanno infatti deciso di disdire i loro abbonamenti alle riviste dell’editore anglo-olandese Elsevier, giudicati troppo costosi. Elsevier è il più grande gruppo editoriale del settore scientifico, con oltre 1200 riviste tra cui The Lancet, Cell, Brain Research e la serie “Trends”. Come la maggior parte delle biblioteche universitarie, quella di Harvard aveva fino a ora con Elsevier un abbonamento “bundle”, comprensivo di più riviste e del relativo accesso on line, della durata di molti anni e senza possibilità di cancellare l’abbonamento prima della scadenza. Un tipo di abbonamento fortemente “spinto” dalla casa editrice, ma giudicato svantaggioso dai bibliotecari, costretti ad acquistare molti giornali che vengono consultati raramente. Da ora in poi, quindi, Harvard effettuerà solo singoli abbonamenti annuali alle riviste principali. E lo stesso farà la biblioteca della Cornell University, nello stato di New York, che ha disdetto il suo accordo per 900 periodici della Elsevier.
Fin qui nulla di clamoroso, anche se per Elsevier gli abbonamenti “bundle” sono uno strumento fondamentale per mantenere in attivo il bilancio delle riviste minori, che potrebbero trovarsi a rischio se il modello di Harvard si estendesse. Ma in altri atenei qualcuno cerca di alzare il livello dello scontro: due docenti dell’Università della California, Keith Yamamoto e Peter Walter, hanno inviato una lettera a tutti i colleghi proponendo di boicottare in toto la Elsevier, dimettendosi dai comitati editoriali delle sue riviste, smettendo di sottoporre articoli o di collaborare come revisori. Il motivo? Sempre lo stesso. Gli abbonamenti alle riviste del gruppo costano troppo: arrivano a otto milioni di dollari, la metà del budget della biblioteca dell’Università.
A far perdere le staffe ai bibliotecari sono stati i continui aumenti dei prezzi delle riviste. Che sono cresciuti del 215 per cento negli ultimi 15 anni, secondo l’Association of Research Libraries. Un anno di abbonamento bibliotecario a una rivista come Brain Research costa oggi oltre 16 mila dollari: con quella cifra, fanno notare a Cornell, si potrebbe pagare a uno studente un anno di iscrizione in una buona università statale.
Se i prezzi delle riviste sono un problema a Harvard, figuriamoci in Italia, dove i budget delle Università sono ben altri. Per la verità sono altri anche i prezzi degli abbonamenti (che vanno dai 250 euro annuali per riviste minori fino a un massimo di 3500 euro circa). Ma il problema rimane.
“Da noi si è corsi ai ripari, fin dalla metà degli anni Novanta, con la costituzione di consorzi interbibliotecari, che negoziano gli abbonamenti a nome di più biblioteche e poi mettono in comune le pubblicazioni”, spiega Anna Maria Tammaro, docente di Editoria Digitale all’Università di Parma e in passato coordinatrice generale delle biblioteche dell’Università di Firenze. “Questo ha permesso un discreto risparmio, ma il problema è che l’introduzione del formato digitale ha aumentato i costi per le università anziché ridurli. Gli editori, con rare eccezioni, non permettono di abbonarsi solo alla rivista in formato digitale, e offrono l’accesso on line insieme alla copia cartacea con un sovrapprezzo di circa il 10 per cento”.
Ma come giustificano i rialzi di prezzo gli editori? “Bisogna ammettere che pubblicare una rivista scientifica ha costi notevoli”, continua la Tammaro, “sono necessari molti passaggi, un grande lavoro di selezione e revisione, e tutti i maggiori editori hanno dovuto fare grandi investimenti nel settore Internet. Il problema è che poi hanno scaricato quasi interamente questi costi sui loro clienti, università e biblioteche, che sono in una posizione di debolezza”.
Chi gioisce di questo dibattito sono naturalmente i paladini dell’open access, il modello editoriale che punta a rendere la letteratura scientifica disponibile gratuitamente a tutti su Internet, facendo pagare agli autori i costi delle pubblicazioni. Lo scorso anno c’è stato il lancio, molto pubblicizzato di PlosBiology, il primo di una serie di giornali di questo tipo realizzata dall’editore di San Francisco Public Library of Science.
Ma potrà davvero questo modello di business soppiantare quello attuale? “La chiave di volta del sistema sono i criteri di valutazione della ricerca”, spiega la Tammaro. “Oggi la carriera dei ricercatori si basa sul numero di pubblicazioni e sull’impact factor delle riviste su cui pubblicano. Ma l’impact factor è calcolato da una società, l’Isi, controllata proprio dai maggiori gruppi editoriali, a cominciare da Elsevier. Plos ne è esclusa, quindi solo i professori affermati possono permettersi di pubblicare lì. Per un giovane ricercatore significa compromettere le proprie possibilità di carriera”.
Lo stesso problema limita anche l’efficacia dei database Oai (Open Archives Initiative), in cui i ricercatori possono inserire e rendere consultabili i risultati delle loro ricerche in forma di pre-print, senza passare per la redazione di una rivista. Una buona idea, ma poco utile per vincere concorsi, come spiega sempre Tammaro: “Il nostro Ministero, nella valutazione della ricerca tiene in considerazione solo le pubblicazioni cartacee”.