Quella dei cervelli europei è una salutare mobilità o una fuga in piena regola? Il confine è labile, ma si può tracciare.“Noi parliamo di circolazione delle intelligenze quando un paese forma i suoi ricercatori e permette loro di scegliere se restare nei laboratori d’origine o andare a fare altre esperienze all’estero. La fuga diventa necessaria quando, dopo la formazione, un paese non è in grado di offrire ai suoi ricercatori le condizioni minime di lavoro”, spiega Augusto Palombini, segretario nazionale dell’Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani. In Italia, sembra di capire, prevale la seconda interpretazione, visto che il paese ha smesso di considerare la ricerca come una variabile fondamentale dello sviluppo tecnologico ed economico.
Anche i più ottimisti, quelli che parlano soprattutto di scambi di idee ed esperienze formative in altri paesi, sono costretti ad ammettere che in Europa il problema si fa serio: i cervelli emigrano in giovane età, e tornano solo quando si è esaurita la spinta propulsiva della curiosità e della voglia di sperimentare il nuovo. Cioè, quando non “servono” più allo sviluppo del paese. A preoccupare, per esempio, è il costante flusso di ricercatori europei verso altri continenti: nel solo 2001, più di 26 mila “lavoratori specializzati”, cioè in possesso di un visto H-1B, destinato a chi ha un alto livello di istruzione, sono partiti dal vecchio continente per bussare alle porte degli Stati Uniti, e molti non sono più tornati. Anche il numero degli europei che hanno conseguito il dottorato direttamente negli Usa e hanno deciso di restarci è alto: 11.000 su 15.000 totali. Il problema è che si tratta di un flusso a senso unico, nel senso che le percentuali di giovani studenti e ricercatori provenienti dall’Asia, dall’Africa e dall’America latina e disposti a studiare e trasferirsi in Europa sono sensibilmente inferiori. Nel Regno Unito il 15 per cento dei giovani studiosi arriva dall’estero, in Belgio si scende all’11 per cento, l’Italia attira appena l’1,4 per cento di ricercatori stranieri. E visto che le nuove idee e la conoscenza scientifica sono fattori essenziali per la crescita economica e per non perdere competitività a livello globale, è ovvio che la perdita di intelligenze europee e il mancato arrivo di forze fresche (dalla Cina, dall’India) non rallegra nessuno.
Del tema si è discusso a Parigi, nel corso dell’incontro organizzato dalla Commissione europea “Brain drain, brain gain: new challenges”, alla presenza del Commissario europeo alla Ricerca Philippe Busquin e del ministro francese delegato alla Ricerca François D’Aubert. Avrebbe dovuto esserci anche il ministro italiano Letizia Moratti. La sua assenza ha fatto sì che la lettera di protesta sui tagli alla ricerca, promossa dai membri dell’associazione Marie Curie e già firmata da quasi 5000 tra studenti, professori associati e di ruolo, post doc e dottorandi non potesse essere recapitata direttamente al destinatario. Ma l’appello già viaggia su Internet , e di ora in ora raccoglie consensi tra chi ogni giorno tocca con mano le difficoltà del fare ricerca in Italia.
In realtà, persino chi continua a parlare di “mobilità” anziché di fuga, ha deciso di correre ai ripari. Già il consiglio europeo di Lisbona, nel marzo 2000, aveva fissato un obiettivo ambizioso: da qui al 2010 l’Europa deve sviluppare l’economia della conoscenza più competitiva e più dinamica del mondo. E un anno più tardi, i capi di Stato e di governo riuniti a Barcellona hanno ribadito il concetto: per far crescere i cervelli europei e reclutarne di nuovi, è necessario destinare alla ricerca in media il 3 per cento del Prodotto interno lordo, e attirare nei laboratori non meno di 700.000 nuovi scienziati. Peccato che l’anno scorso gli investimenti pubblici in ricerca in Italia abbiano rappresentato appena lo 0,69 per cento del Pil (si arriva a malapena all’1 per cento considerando anche gli investimenti del privato). Cifre ben lontane da quelle degli Usa (che destina alla ricerca il 2,7 per cento del Pil) e del Giappone (3 per cento). Se poi si considera che gli stipendi dei ricercatori italiani sono tra i più bassi d’Europa, e che lo spettro del precariato si allunga sempre più sui giovani cervelli nazionali, non deve essere un caso se l’Italia ha il più basso numero di ricercatori in rapporto alla popolazione totale: 2,8 su mille, contro una media del 5,5 per mille dei paesi Ue.
La Commissione ha così presentato le tre azioni principali destinate a migliorare la circolazione delle idee e lo status sociale ed economico di chi ha scelto di lavorare in campo scientifico. “In primo luogo”, spiega Busquin, “la rete Era-More, un network europeo dei centri di mobilità, composto da 200 unità sparse in 33 paesi dell’Unione, destinate a fornire assistenza personalizzata ai ricercatori e alle loro famiglie in tutti gli aspetti della loro vita professionale e quotidiana”: dal sostegno per le difficoltà di lingua all’assistenza legale, burocratica e logistica. In secondo luogo, continua il Commissario europeo alla Ricerca, il portale Era-Careers, lo strumento online sulla mobilità, destinato a facilitare la ricerca di lavoro in altri paesi europei con informazioni sui salari, le possibilità di carriera, le legislazioni del settore. Terza, e forse più importante iniziativa, la predisposizione di un visto europeo specifico per i ricercatori in arrivo dai paesi non-Eu, in modo tale da semplificare la circolazione dei cervelli tra gli Stati membri. Nelle intenzioni della Commissione c’è poi un’azione di sensibilizzazione, una sorta di “Carta dei diritti e dei doveri” del ricercatore europeo che definisca in modo chiaro le regole di una professione e ne valorizzi il ruolo e i compiti. In questa direzione vanno anche la lotta al precariato (che, come riconosce Busquin, non aiuta ad attirare i giovani verso il mestiere di scienziato, né la creatività di chi ha già intrapreso questa strada) e il riconoscimento a livello europeo dei titoli e del lavoro svolto all’estero, così che rientrare alla base non debba necessariamente significare perdere gli avanzamenti ottenuti. Il budget destinato all’operazione? “Ciascun stato membro si è impegnato a investire circa 200.000 euro per tre anni”, continua Busquin, “ma col tempo speriamo di aumentare le disponibilità”.
“Si tratta di passi nella direzione giusta, il problema è vedere con quanta celerità i diversi paesi faranno proprie queste iniziative”, commenta Palombini. Le politiche adottate in questi ultimi tempi dal ministro Moratti, per esempio, sembrano andare verso una progressiva espansione dei tempi di precariato, “condizione nella quale un ricercatore italiano non può nemmeno chiedere un mutuo”, continua il segretario dell’Associazione dei dottori di ricerca. Che dopo quello dei “cervelli in fuga” sta affrontando anche un altro aspetto della questione: parlare di chi resta, ma senza poter lavorare in condizioni dignitose. Ricercatori senza strumenti, senza fondi, senza responsabilità e possibilità di crescita professionale. Cervelli sì, ma “in gabbia”.