In alcune zone rurali del vecchio sud e in interi grandi quartieri popolari statunitensi, la speranza di vita è più o meno identica a quella dell’Indonesia o del Guatemala. Uno sguardo al futuro che forse ci aspetta.
A Baltimora è al livello dell’India. Nelle riserve amerindiane e per alcune popolazioni afro-americane dei grandi quartieri popolari dell’est, è inferiore a 60 anni per gli uomini. Nelle contee più ricche, invece, si vive a lungo come in Europa occidentale.
Nel 1971, la parte della ricchezza nazionale consumata in spese sanitarie era pari al 7,4% in Canada e al 7,6% negli Stati uniti. Trent’anni dopo è del 9% in Canada dove tutti i cittadini sono coperti da sistemi mutualistici provinciali, mentre ha raggiunto il 14,6% negli Stati uniti, dove circa un sesto della popolazione (44 milioni di persone nel 2002) non dispone di nessuna forma di copertura. Se aggiungiamo coloro che, ad un determinato momento nel corso di un anno, non sono stati coperti, la percentuale della popolazione che ha poco o per nulla accesso alla mutua tocca il 32,2% – addirittura più del 40% se includiamo anche coloro che non hanno una buona copertura. Vale a dire, in questo ultimo caso, un raddoppio in una decina di anni.
La crescita economica degli anni ’90 non si è quindi per nulla tradotta in un miglioramento dell’accesso alle cure mediche. L’affollamento dei servizi di Pronto soccorso e la chiusura di molti ospedali sono la testimonianza di questo degrado. Di fronte alla rapida crescita dei costi legati all’invecchiamento della popolazione, all’introduzione di tecnologie sempre più complesse e all’inflazione delle procedure, i poteri pubblici si sono arresi ai «meccanismi di mercato». Di qui l’apparizione delle managed care o «cure controllate», che attraverso incentivi fiscali orientano gli statunitensi a fare ricorso ad assicurazioni private. La crescita delle spese è rallentata nel corso degli anni ’90, a scapito dell’universalità dell’accesso alle cure. La salute non costituisce un prodotto di consumo corrente che i «meccanismi di mercato» possono ripartire con efficacia ed equità. Esiste un disequilibrio di base tra il livello di informazione di cui dispongono coloro che producono i servizi sanitari e coloro che li utilizzano: la complicazione del sistema è tale che secondo una serie di studi pubblicati dall’Università dell’Oregon, soltanto l’11% degli anziani sarebbe in grado di fare una scelta conforme ai propri interessi tra pagare per ogni visita e l’assicurazione privata. L’intervento dello stato, che potrebbe correggere questi problemi, resta circoscritto alle popolazioni ai margini della vita attiva.
I lavoratori dipendono dalla mutua che viene procurata loro dai datori di lavoro, che scelgono in funzione di criteri legati alla concorrenza. Nel settore auto, per esempio, i costruttori canadesi economizzano 4 dollari l’ora per dipendente grazie ai minori costi del sistema pubblico. Alcuni padroni statunitensi sono arrivati quasi al punto di reclamare una dose di socialismo! Nel novembre 2002, i dirigenti di Ford, General Motors e DaimlerChrysler hanno pubblicato un testo comune che dice: «Un sistema di sanità pubblica riduce in modo sensibile il costo del lavoro (…) quando viene paragonato al costo di un sistema privato equivalente del tipo di quello che i costruttori di automobili statunitensi acquistano dalle compagnie di assicurazione».
Il costo delle polizze che le case pagano (circa 1.200 dollari per automobile) da tre anni a questa parte registra una crescita a due cifre, in parte indotta dall’enormità dei costi di amministrazione e di marketing (dal 20 al 40% dell’insieme dei costi delle compagnie di assicurazione). Le imprese hanno allora tendenza a ridurre la copertura sanitaria dei loro dipendenti o i rimborsi. Venti milioni di dipendenti a tempo pieno non dispongono più di una copertura medica, una cifra che è facile prevedere aumenterà ancora. Per quanto riguarda le compagnie di assicurazione, ormai non hanno più problemi ad abbandonare i clienti che ritengono non abbastanza redditizi. Messe a confronto con una forte concorrenza interna, adesso si orientano verso mercati maggiormente remunerativi all’estero.
Nella storia degli Stati uniti, l’assicurazione malattia non ha mai fatto parte delle priorità sociali. Fin dall’inizio del XX secolo, la potente American Medical Association (Ama) ha preso posizione per impedire che lo stato intervenisse nel settore sanitario. Il New Deal ha istituito un sistema pensionistico a ripartizione, ma non si è occupato di accesso alle cure mediche. Quindi le prime iniziative di assicurazione sanitaria sono state private. La scarsità di manodopera durante la seconda guerra mondiale ha spinto i datori di lavoro a partecipare a queste assicurazioni: poiché i salari erano bloccati per decisione governativa, la concorrenza per attirare forza lavoro si faceva sui vantaggi sociali annessi.
Bisognerà poi aspettare il 1965 – il presidente democratico Lyndon Johnson disponeva di una schiacciante maggioranza al Congresso – perché nasca finalmente un sistema pubblico di assicurazione-malattie: Medicare (per i portatori di handicap e le persone di più di 65 anni) e Medicaid (per i più poveri). Questi programmi, finanziati dalle tasse sui salari e altre imposte, riguardano attualmente 70 milioni di persone. Ma, contrariamente a Medicaid, Medicare non paga le medicine prescritte su ricetta medica. Ma si tratta qui di una spesa molto pesante per le persone anziane che soffrono di malattie croniche (diabete, cancro, ipercolesterolemia, ipertensione, depressione), la cui cura puo’ costare varie centinaia di dollari al mese.
In mancanza di una assicurazione malattie universale, ognuno puo’ «scegliere» di assicurarsi o no: sovente lo fanno soltanto le persone che si ritengono «a rischio», cosa che riduce i contributi e fa quindi aumentare i costi dell’assicurazione per tutti. Inoltre, questi costi sono anche elevati a causa del fatto che gli assicurati non hanno i vantaggi di una trattativa collettiva di fronte alle compagnie di assicurazione. L’esplosione del montante delle polizze (+13,9% nel 2003) spaventa milioni di famiglie, ivi comprese quelle con alti redditi: nello stato del Maryland, il 27% delle persone sprovviste di un’assicurazione malattia dispongono di un reddito familiare annuale superiore a 73mila dollari (circa 60mila euro). Una copertura completa può costare fino a mille dollari (800 euro) al mese e così la maggior parte degli statunitensi che vivono al di sopra della soglia di povertà – e quindi non godono di Medicare – ne fanno a meno.
Di fronte a un sistema complesso, frammentato e privo di una vera coerenza, è difficile orientarsi nella giungla delle norme previste per l’accesso al sistema di cure. A tal punto che milioni di bambini che avrebbero diritto al programma di mutua per i bambini (Children Health Insurance Program) istituito dall’amministrazione Clinton, non ne godono – le famiglie o ne ignorano l’esistenza o non sanno di averne diritto. Numerosi sono anche coloro che potrebbero beneficiare di Medicaid ma vi rinunciano, scoraggiati dai vincoli imposti dai programmi sociali, d’ora in poi amministrati dagli stati a causa della decentralizzazione dei bilanci sociali decisa nel 1996 dal presidente Clinton sotto la pressione del Congresso a maggioranza repubblicana. Il numero dei beneficiari dei programmi di aiuto sociale è diminuito, in seguito a ciò, del 40%.
Da due anni circa, la lotta per un più ampio accesso alle cure mediche ha messo l’accento sui prezzi delle medicine e sul pagamento di esse da parte di Medicare. Si tratta di una grossa questione elettorale, poiché i pensionati votano di più dei poveri. I governatori degli stati limitrofi del Canada hanno quindi organizzato dei viaggi di pensionati al nord della frontiera per far convalidare delle ricette mediche e comprare medicine a dei prezzi inferiori dal 30 al 40% di ciò che costano agli Stati uniti.
I giganteschi profitti realizzati da decenni dai gruppi farmaceutici negli Stati uniti – è il settore economico più redditizio da più di vent’anni – non li rendono molto popolari. Ma il tentativo di ampliare l’accesso alla assicurazione malattie, abortito nel 1994, sembra aver convinto la classe politica dell’inutilità di un nuovo sforzo di cui invece ci sarebbe bisogno per una vera rivoluzione contro gli interessi delle lobbies. La legge del dicembre 2003, firmata dal presidente Bush, che fa assumere dallo stato il pagamento di alcune medicine per gli iscritti a Medicare, a partire dal 2006, permette di rispondere alla rabbia crescente degli anziani di fronte ai prezzi delle ricette mediche.
Ma questa legge, eccessivamente complicata, costituisce anche un gigantesco regalo fatto all’industria farmaceutica, alla quale lo stato non impone nessuna contropartita per i rimborsi che prenderà a suo carico. Il fardello finanziario dichiarato all’inizio (più di 400 miliardi di dollari per i prossimi dieci anni) è già stato rivalutato dal 30 al 40%, punto su cui la Casa bianca ha preferito sorvolare, per garantire che la legge passasse (di misura) l’anno scorso.
Per rimediare alle insufficienze più evidenti, vengono prese in ordine sparso delle iniziative di compensazione. Per esempio, il 39% dei medici aggrava la diagnosi per assicurare una migliore copertura ai loro pazienti. Così, nello stesso tempo si premuniscono contro eventuali processi per errore medico: le polizze delle assicurazioni contro questo rischio stanno esplodendo in alcuni stati, e provocano persino delle migrazioni di medici verso zone meno avide. Nel frattempo i pazienti che non hanno accesso alle casse di risonanza della politica e dei media, come gli amerindiani, buon numero degli afro-americani e di immigrati recenti, restano senza risorse.
L’industria farmaceutica, che gode a Washington di un’influenza formidabile grazie agli enormi sforzi di lobbying, non ha esitato a rivolgersi al tribunale per denunciare gli stati disposti a regolamentare il prezzo delle medicine. Nel maggio 2003, però, una sentenza della Corte suprema ha dato ragione al Maine, che aveva deciso la regolamentazione. Altri stati stanno seguendo la stessa strada: Oregon, Wisconsin, Maryland. Ma le lobbies dell’industria della salute sanno soffocare la contestazione. Quando nel 2000 gli elettori del Massachusetts sono stati consultati con un referendum sull’introduzione di un sistema pubblico universale, i promotori dell’idea, che avevano soltanto qualche decina di migliaia di dollari per la campagna, hanno dovuto far fronte a un assalto dotato di 5 milioni di dollari, versati essenzialemente dalle assicurazioni private.
Gli schermi sono stati in fretta invasi da spot che mostravano uomini e donne in bianco, dall’aria molto rispettabile («il vostro medico», «la vostra infermiera»), che protestavano contro «l’attacco alla libertà» rappresentato secondo loro dall’intrusione del big governement in un campo che riguarda la scelta privata. I partigiani del «sì» erano dati ampiamente per vincenti dai sondaggi. Ma alla fine ha vinto il «no» con il 55% dei voti.