GIORNATE DI NADIR 2019 – SEMINARIO

NUOVE STRATEGIE TERAPEUTICHE PAZIENTE ORIENTATE,
DA OGGI AL FUTURO

Aging: semplificazione della terapia nell’ottica della polifarmacia
Giovanni Guaraldi

L’invecchiamento è accompagnato da una serie di patologie legate all’età del paziente, situazione che implica una maggiore assunzione di farmaci. Si parla di polifarmacia quando l’assunzione giornaliera è maggiore di cinque farmaci diversi. Quindi, l’invecchiamento in presenza di HIV costituisce una situazione di rischio a causa delle interazioni farmacologiche che comportano tossicità e/o l’inibizione o alterazione dell’efficacia di alcuni o promuovendo la comparsa di altre complicazioni.  Affidarsi ai farmaci è necessario, ma considerare le caratteristiche individuali aumenta, efficacemente, la qualità della vita.

L’umore e la Qol:
Studi clinici hanno dimostrato che la variabile “umore” incide a volte positivamente, altre negativamente, sulla Qualità della vita, quindi, è impossibile raggiungere il famoso 4° novanta se non si prendono in considerazione tutti gli aspetti, oltre quelli clinici, che incidono singolarmente sulla vita delle persone. Quelli neurocognitivi giocano un ruolo fondamentale nella risposta della persona alle esigenze che comporta ogni percorso terapeutico.

Prescribing cascade:
ovvero la prescrizione di un farmaco per guarire l’effetto collaterale di un altro farmaco che il medico riconosce come nuova patologia è un aspetto da evitare.

Onde evitare la polifarmacia bisogna capire quando alcuni farmaci smettono di essere di aiuto per la persona a seconda dell’età. Alcuni medicinali devono essere eliminati (cutting) se il danno è maggiore del beneficio degli interventi individualizzati; altri invece non possono essere associati fra loro per il problema delle interazioni e delle tossicità (parametri consultabili dai medici sul sito web Med Stop).

Gestione della polifarmacia nel paziente anziano:
Tutto ciò che viene fatto per la salute, deve tradursi in un beneficio individuale, sia dal punto di vista clinico che dal punto di vista dello stile di vita.

L’invecchiamento è accompagnato da una serie di patologie legate, ovviamente, all’età del paziente. Si accumulano più malattie, più terapie, più farmaci.

Cos’è la polypharmacy?
E’ l’assunzione di più di cinque farmaci contemporaneamente.

Tante interazioni farmacologiche generano un rischio elevato di drug-drug interaction perché determinano una tossicità molto grave, fattore che incide moltissimo sulla qualità della vita del paziente.

Gli strumenti a nostra disposizione confermano che è impossibile stimare le interazioni oltre ai tre medicinali contemporaneamente. Siamo in una situazione di rischio assoluto.

Le persone che invecchiano con HIV si trascinano pesi enormi in termini di disturbo psichico ed è fondamentale considerare, non solo la situazione viro-immunologica, ma la salute psichica, dunque la depressione, la mancanza di concentrazione e, non ultima, la gestione della polypharmacy.

Un approccio innovativo è il personalized medicine, in cui vengono presi in considerazione gli aspetti differenti di ogni paziente abbandonando il solito, unico sistema valido per tutti.

Si è tentato, addirittura, un esperimento matematico per decifrare la qualità della vita in ogni malato. Per due anni, sono stati monitorati 400 pazienti, di cui si conosceva ogni variabile: analisi del sangue, fisioterapia, passi durante la giornata, umore, ore di sonno, terapie. Attraverso un software del dipartimento di matematica, si è tentato di avere una interpretazione di tutti questi dati al fine di predire la qualità della vita di ogni singolo paziente. Il dato più rilevante ha riguardato la variabile umore, che, a volte incide positivamente, altre negativamente. E’ evidente che è impossibile arrivare al famoso quarto 90 se non si prendono in considerazione tutti gli aspetti, oltre quelli clinici, che incidono singolarmente sulla vita delle persone.

La polypharmacy genera il 47% di incremento di ospedalizzazioni e, ogni farmaco aggiunto, le aumenta, ulteriormente, dell’8% alimentando una situazione paradossale in cui si prescrivono medicinali per la salute del paziente, ma che alla lunga danneggiano l’individuo.

In ambito geriatrico, esistono una serie di linee guida, che indicano, per esempio, la statina come farmaco salvavita tra i 40 e i 60 anni. Lo stesso farmaco, dopo i 70 anni, fa male. Il concetto è capire se il danno supera il beneficio con interventi individualizzati sul malato: alcuni medicinali devono essere eliminati (cutting), altri non possono essere associati fra loro (parametri consultabili dai medici sul sito web Med Stop).

In conclusione, partendo da una condizione etica, non esiste motivo nel somministrare un farmaco, se di tale farmaco il paziente può farne a meno, soprattutto in ambito geriatrico.

Le terapie a due farmaci, risultati nella pratica clinica e nuove combinazioni in sviluppo
Andrea Antinori

Nel 1995, ci fu Il primo gradino di miglioramento della terapia antiretrovirale, la dual therapy: due farmaci della stessa classe, due analoghi nucleosidici, combinazioni che avevano lo stesso target di meccanismo di azione. Ma, quelle terapie, si rivelano, ben presto, insufficienti sia perché,  prima o poi, la carica virale riprende a replicarsi sia perché generano molte resistenze nella trascrittasi, quindi nella classe degli inibitori dei nucleosidici della trascrittasi inversa.

Si afferma, dunque, il principio che la terapia doveva, necessariamente, essere di tre farmaci.

E allora perché si sta pensando di tornare indietro? Perché la potenza e la barriera genetica delle nuove classi di antiretrovirali pone la questione, della terapia dual, in termini molto diversi da come era prima del 1995.

E’ chiaro che l’esposizione farmacologica, nell’arco di decenni, ipotetici danni all’organismo li può procurare. Vale il concetto, quindi, che se è possibile raggiungere lo stesso risultato con la metà delle dosi in esposizione è, senza dubbio, la soluzione migliore.

Molti studi di ricerca di base virologica dimostrano che, per poter fermare il virus, è sufficiente inibirlo in due steps della replicazione virale.

Altra soluzione è la monoterapia con inibitore delle proteasi. Il concetto è molto simile all’efficacia della triplice, non produce resistenze, ma è impensabile paragonare i risultati perchè, da sola, non funziona. La monoterapia con Dolutegravir, per esempio, genera una resistenza nell’integrasi e, per riportare una persona a viremia negativa, torna ad essere necessario usare i farmaci del passato, quelli da cui ci si è allontanati per sicurezza. Inoltre, economicamente,  non è vantaggiosa considerando che, a grandi linee, ha lo stesso costo di una dual therapy con dolutegravir+lamivudina.

La storia è cambiata quando sono arrivati gli inibitori dell integrasi perché hanno consentito di avere una classe molto potente e alcuni di loro, in particolare Dolutegravir, hanno una barriera genetica elevata, ossia riescono a reggere l’urto, quando vengono somministrati in combinazione di due farmaci, sul problema delle resistenze.

La seconda era della dual therapy, arriva con il Dolutegravir in combinazione con Lamivudina, un farmaco molto potente dal punto di vista antiretrovirale e con un ottimo profilo di sicurezza e tollerabilità.

Studi internazionali dimostrano che, restando su due farmaci e non su tre, gli strati con le cariche virali più alte, non subiscono alcun fallimento virologico confermato.

Questo regime, di fatto, ha retto, in maniera eccellente, il confronto con la terapia a tre farmaci.

Gli unici fallimenti si sono verificati nei pazienti con meno di 200 cellule CD4. Nessun fallimento, però, era correlato al farmaco: interruzione spontanea, cambiamenti nella vita sociale, carcere. Tutti fallimenti, in un certo senso, amministrativi. Per sicurezza, però, il regime dual nei pazienti al di sotto dei 200 non viene utilizzato.

Nella dual therapy, la velocità di discesa della carica virale, è identica a quella della triplice combinazione che contiene Dolutegravir. In una quarantina di pazienti naive in terapia dual con Dolutegravir+Lamivudina, quasi tutti, nei tre mesi, hanno la carica virale non rilevabile indipendentemente dal fatto che siano partiti da sopra o sotto le 100mila copie. E’ evidente che il lavoro di DKA veloce lo fa soprattutto l’inibitore dell’integrasi.

E’ possibile passare a due farmaci senza rischiare che la carica virale riprenda? Ovviamente si, con assoluta sicurezza.

In un secondo studio effettuato su pazienti randomizzati, regimi che contenevano Taf, con viremia soppressa, la somministrazione del regime Dolutegravir+Lamivudina, ha dato risultati notevoli: il regime dual mantiene la carica virale soppressa esattamente come una triplice combinazione.

A breve sarà presentato al comitato etico, un grande studio italiano sulla possibilità di usare il regime della dual therapy nello switch immediato, cioè nel momento esatto in cui si abbatte la carica virale.

Anche i long acting, oggi, sono sviluppati in dual therapy. A tal proposito, è in arrivo un farmaco, di nuovissima generazione: Islatravir. Inibitore della trascrittasi e della traslocazione virale, potrà essere impiantato sottocute perché ha, nella nano-formulazione, un’emivita lunghissima in grado di reggere fino ad un anno dal punto di vista cinetico. Per via orale è un ottimo antivirale che offre la possibilità di somministrazione a intervalli più lunghi di quelli quotidiani.

Gli studi stanno sviluppando la combinazione di questo farmaco, in dual therapy, con la doravirina e, finora i risultati sono molto interessanti, propedeutici alla fase studio tre che si sta aprendo.

In conclusione, da questo momento in poi, tutto ciò che arriva sarà sviluppato in dual therapy.

Le terapie iniettive a lento rilascio: dagli studi clinici alla pratica, risultati, prospettive di implementazione, criticità per chi inizia e per chi è già in terapia.
Pro e contro delle terapie a lento rilascio
Antonella Castagna

Il farmaco long acting, selezionato in regimi ben tollerati, è, senza ombra di dubbio,  una nuova faccia per la prevenzione e per la terapia dell’infezione da HIV.

Uno dei vantaggi principali è la somministrazione di farmaci meno frequentemente. Salta, dunque, il concetto del farmaco giornaliero con tutto ciò che ne consegue, le derive psicologiche, lo stigma, la prospettiva di effettuare controlli virologici meno frequenti. Un dato importante, emerso dagli studi, è la soddisfazione del paziente, con infezione da HIV, nel vivere un radicale cambiamento della sua quotidianità.

Quali sono, invece, i contro di un farmaco long acting? Principalmente dovrebbe avere un’organizzazione del sistema sanitario che ne permetta la somministrazione ai pazienti. Al momento, inoltre, è prevista l’assunzione per via orale e non sono ancora noti tutti gli effetti collaterali.

Un concetto di elevata importanza è che, i long acting, si preannunciano come uno strumento importante per la prevenzione da HIV.

A questo proposito, un dato allarmante riguarda gli adolescenti.

Nel 2018, si sono infettati mezzo milione di adolescenti nel mondo.  E’ evidente, come a questa categoria sia fondamentale suggerire strumenti di prevenzione efficienti e il long acting potrebbe avere queste caratteristiche.

Al momento la prevenzione è affidata alla PREP, per via orale, quotidiana, ma qualche segnale di aderenza inizia ad arrivare perché la costanza di assumere una compressa al giorno, risulta stancante. E, la popolazione più a rischio, sono proprio gli adolescenti.

Aziende e ricercatori indipendenti stanno impiegando molte energie nello sviluppo dei long acting.

Uno studio, di fase due, l’HPTN077, si è occupato di verificare l’efficacia, la sicurezza e la dose del farmaco Cabotegravir: una iniezione intramuscolo, 800 mg ogni 12 settimane oppure 600 mg ogni 8 settimane. Quindi un modo, per prevenire l’HIV, diverso dall’assunzione quotidiana della PREP per via orale.

Ciò che è emerso è che, Cabotegravir è un inibitore dell’integrasi interessante perché, nel contesto in cui è stato studiato, non è associato all’aumento di peso come altri inibitori.

In riferimento alla dose, ci sono in corso due grandissimi trial, in cui si sta valutando se la profilassi con Cabotegravir intramuscolo, nelle donne non infette o nei maschi omosessuali o nei transgender, può essere un’alternativa alla PREP quotidiana.

Una profilassi pre-esposizione con un long acting ci obbliga ad aggiornare tutti i test, attualmente disponibili per HIV, perché è necessaria la certezza della negatività.

Il composto Islatravir della Merck, è molto efficiente: è un inibitore nucleotidico e di traslocazione, blocca sia il proseguimento della formazione della doppia elica sia la trascrizione del DNA in due punti. Ha un’attività, di gran lunga, superiore a quella dei composti che già esistono, per questo viene studiato in duplice, per la profilassi dell’infezione da HIV  e per la prevenzione. Proprio sulla questione prevenzione, si è visto che, iniettando una dose di questo farmaco nel topo, si ottengono concentrazioni efficaci per prevenire le infezioni da HIV per almeno sei mesi.

E’ chiaro che il miglior long acting che potremmo avere è il vaccino.

Le nano-formulazioni che contengono un insieme di farmaci sono molto lipofidiche, quindi superano molto bene la membrana cellulare, si accumulano altrettanto bene nei reservoir, quindi possono essere utilizzate anche per testare i percorsi di cura di infezione da HIV.

Si sta pensando di creare la Laser Art (Long Acting Slow Effective Release Antiretroviral Therapy),  un regime di associazione, con grande lipofilia, che permette di superare bene la membrana cellulare, sia sui CD4 che sui macrofagi e di essere rilasciata in modo lento.

Gli studi intendono capire se è possibile associare la terapia laser art alle metodiche di editing del genoma, per togliere il genoma del virus.

Il primo long acting che avremo sarà Cabotegravir+Rilpivirina. Due grandi trial, Atlas e Flair, si occupano, principalmente, di valutare la somministrazione Cabotegravir+Rilpivirina, la sua efficacia ed eventuali effetti collaterali, uno in pazienti naive, l’altro in pazienti in soppressione virologica. In entrambi i casi, il long acting funziona indipendentemente dall’età, dal genere, dai CD4.

Ma il long acting è esente da fallimento? No, perchè potrebbe essere sia la soluzione che il problema per i pazienti non aderenti.

Ricordiamoci che, dopo la somministrazione, il medico rivedrà il paziente dopo 8 settimane e, se si dovesse verificare anche una cefalea, il farmaco resta in circolo e l’unica soluzione è evitare la somministrazione successiva. Inoltre, con il passare del tempo, ha una concentrazione sempre minore per cui i virus resistenti potrebbero emergere di nuovo.

Dopo aver superato, brillantemente, la prova delle 48 settimane, nel 2020, probabilmente, anche in Italia si potrà parlare di long acting.

Questi farmaci saranno una realtà importante che cambierà l’organizzazione in ambiente sanitario, il rapporto medico-paziente, per la semplificazione della terapia, probabilmente per la cura dei pazienti multiresistenti e ci sono le premesse per cui, questi farmaci, rientreranno tra quelli in uso per la prevenzione da HIV.

 

Discussione tra i partecipanti sull’implementazione e sulla gestione nella vita reale
Moderatore: Lella Cosmaro

Lo spazio è stato dedicato a dimensionare la percezione dei presenti sulle strategie di semplificazione sul tema della formulazione iniettabile, aspettative, eventuali criticità è stato coordinato da Lella Cosmaro (LILA Milano). Le associazioni territoriali hanno avuto l’opportunità di scambiare opinioni dal punto di vista della community, soprattutto in relazione alle eventuali difficoltà pratiche nella somministrazione della terapia per via intramuscolare, considerando i limiti delle strutture ospedaliere a livello locale. Si sostiene durante la sessione che sarebbe opportuno poter ritirare i farmaci iniettabili per poterli somministrare in luogo diverso dall’ospedale. Di fatto è così che si fa con le terapie orali.

Iniziativa resa possibile grazie al supporto incondizionato di ViiV Healthcare