Ieri un’ora di sciopero simbolico «per la salute», oggi un’ora di stipendio da devolvere alla Caritas. E’ la tattica soft adottata dai medici ospedalieri per tener desta l’attenzione sulla loro con il governo.La molla della mobilitazione dei medici della sanità pubblica e convenzionata è il rinnovo del contratto, scaduto da due anni. Questa volta, però, i camici bianchi cercano di far uscire la vertenza dallo stretto perimetro corporativo, lanciano (un po’ in ritardo) l’Sos sul sistema sanitario pubblico. Taglio dei finanziamenti, logica aziendalista, privatizzazioni, devoluzione già realizzata e incombente: tutto cospira per degradare e, alla fine, far tracollare il servizio sanitario nazionale. E’ una deriva che i medici, ancor più dei cittadini, toccano con mano tutti i giorni. Vogliono fermarla schierandosi a fianco degli utenti contro una sanità meramente «contabile», dove l’ultima parola l’hanno i bilanci, non i bisogni di cure e salute. Secondo l’Anaao il 75% dei medici ha aderito allo sciopero simbolico di ieri. Unica conseguenza, qualche leggero ritardo nelle visite e negli interventi. Il collega-ministro Sirchia, dopo il primo sciopero, aveva riconosciuto le buone ragioni dei medici. Ma il governo, cioè Tremonti, non ha fatto una piega. I soldi per rinnovare il contratto non ci sono, mentre resta aperto il contenzioso tra Stato e Regioni sui 6 miliardi di euro che mancano al fondo sanitario. Forse, a ridosso delle elezioni, il «genio» appannato raschiando il fondo del barile rimedierà qualcosa da offrire ai medici. Basterà per far rientrare nei ranghi i medici? Per ora di offerte non ce n’è manco mezza e il fronte variegato delle sigle di categoria resta compatto.
«Governo e Regioni continuano a deluderci, non considerano la sanità e la salute una priorità degna d’attenzione», dice Stefano Biasioli, presidente dell’associazione dei dirigenti medici aderenti al Cimo. Quella di ieri, aggiunge, più che un’ora di sciopero è stata un’ora di «dialogo» per informare i cittadini su «un’assistenza sanitaria che così com’è non è più accettabile». Vincenzo Carpino, presidente dell’Aaroi (sindacato degli anestesisti e dei rianimatori) mette nel mirino la devolution: «Sarà la fine della sanità uguale per tutti, avremo 21 sistemi diversi con cittadini di regioni ricche di serie A e cittadini di serie B di quelle povere». E critica gli ospedali-azienda: «Due più due in sanità non fa sempre quattro. Si prenda atto che la gestione contabile fatta in questi anni dai cosiddetti manager è stata fallimentare». La professione medica, la «clinica», non può essere forzata dall’imposizione di bilanci non condivisi, fa eco Gino Luporini, presidente del Fism (la federazione che raccoglie 160 società medico-scientifiche). «Così anche la sanità pubblica si avvia verso scelte ragionieristiche che possono nuocere alla corretta assistenza del paziente».
Livia Turco, a nome dei Ds, esprime «sostegno e gratitudine alla battaglia dei medici», impegnati a difendere un servizio sanitario «nazionale, pubblico, solidale e universalistico». Serve a poco che Sirchia si schieri dalla parte dei medici, se poi non batte ciglio di fronte alla bocciatura da parte del suo governo del fondo a favore degli anziani non autosufficienti. E’ la dimostrazione, conclude l’ex ministra, che «il ministero della salute è diventato una funzione inesistente». Cittadinanzattiva plaude allo sciopero virtuale che «evita di scaricare sui cittadini colpe che non hanno». Anche noi, dice il segretario Stefano Inglese, «siamo contrari e non da oggi al prevalere di logiche ragionieristiche nella gestione delle politiche sanitarie».
Il segretario della Cgil lombarda Pino Vanacore osserva che la giusta mobilitazione dei medici veicola un messaggio anche per Formigoni. Il presidente del Pirellone non può cavarsela ripetendo che in Lombardia ci sono «ospedali eccellenti», se poi l’unico modo per ovviare alle liste d’attesa (lunghe un anno per una mammografia o una visita oculistica) è di mettere mano al portafoglio. In Lombardia il ticket per una visita specialistica ammonta a 46 euro e si calcola che circa la metà della spesa farmaceutica ricada direttamente sulle tasche dei malati.