La Dr.ssa Cristina Mussini della Clinica delle Malattie Infettive e Tropicali, Università di Modena e Reggio Emilia, opinion leader in proposito, interviene per fare il punto della situazioni sulle interruzioni delle terapie antiretrovirali. Articolo completo sul n.23 di Delta ora in distribuzione.Come colpire il virus
Dall’avvento dell’infezione da HIV abbiamo visto emergere e scomparire diverse tendenze, direi persino mode. Come non ricordare, solo per fare un esempio, i dati di Fischi et al. sui vantaggi prognostici dell’iniziare la terapia con zidovudina, allora l’unico farmaco a disposizione, in presenza di linfociti T CD4+ inferiori a 500 cellule/μL, poi clamorosamente smentiti dallo studio Concorde? L’idea di cominciare il trattamento precocemente nel tentativo di bloccare la distruzione dei linfociti T CD4+, è stata poi ripresa quando si è avuta la disponibilità di farmaci potenti da David Ho, che ci esortava a “colpire presto e duramente”, e un po’ da tutti gli opinion leader dopo la pubblicazione dei risultati di Mellors et al. sul valore prognostico della carica plasmatica di HIV. Le linee guida di trattamento sono state via via modificate sulla base di questi pareri autorevoli e ci hanno portato, nel tempo, a somministrare farmaci a pazienti che non avremmo trattato così precocemente, alla luce delle convinzioni più recenti.
Genesi della sospensione
L’introduzione della HAART, con i suoi risultati clamorosi sulla morbosità e letalità dei pazienti, aveva determinato un clima di euforia che aveva persino portato a postulare l’ipotesi della possibile eradicazione dell’infezione da HIV. A quasi dieci anni da quello storico momento ci troviamo, da una parte, a trattare una malattia ormai resa quasi cronica – ma certamente non sconfitta nemmeno dalle associazioni di farmaci più potenti – dall’altra a dover fronteggiare effetti collaterali quali la lipodistrofia o l’aumentato rischio cardiovascolare collegato alla durata del trattamento antiretrovirale, per citarne solo alcuni. Questi due fatti, la provvisorietà delle mode che ha portato a nutrire un certo scetticismo nei confronti dei “dogmi terapeutici”, l’esigenza di affrontare quotidianamente effetti collaterali importanti anche solo da un punto di vista estetico e problemi di aderenza, hanno stimolato pazienti e ricercatori a intraprendere la strada dell’interruzione terapeutica. Sono stati proprio i pazienti, per primi, a decidere di concedersi “vacanze terapeutiche”, concordate o meno con i curanti, e, non dobbiamo dimenticarlo, essi continuano e continueranno ancora ad attuarle. I ricercatori e i clinici, invece, sono stati guidati dapprima dalla volontà di valutare la sicurezza di un approccio terapeutico che comprendesse anche periodi senza terapia per poter dare informazioni più precise ai malati sui rischi di tale strategia. In seguito, li ha assaliti il dubbio di aver iniziato troppo presto la somministrazione della HAART in un certo numero di pazienti che, forse, avrebbero potuto procrastinare il trattamento evitando l’insorgenza di effetti collaterali. Inizialmente l’approccio ha privilegiato la sicurezza, e quindi sono stati programmati periodi di interruzione strutturata della terapia che consentissero una minore esposizione ai farmaci, ma senza determinare una perdita dei linfociti T CD4+. Purtroppo tali studi -pianificati a tavolino, basandosi solo su dati immunologici, senza tener conto dell’impatto sulla qualità della vita del paziente – sono falliti. Se è vero, infatti, che il fallimento principale dei protocolli che comprendevano periodi pre-fissati di sospensione terapeutica intervallati a periodi di terapia è consistito nell’incapacità di ottenere un’”autovaccinazione”, è risultata altresì evidente l’estrema difficoltà con la quale i pazienti osservavano correttamente i periodi con e senza terapia: conseguenza ne è stata l’aumento del numero dei fallimenti virologici. Inoltre, a decretare definitivamente la fine di tale strategia terapeutica, sono venuti i dati sulla comparsa di resistenze, soprattutto nei soggetti che erano stati trattati precedentemente con mono- e duplice terapia, evidenziata dallo studio italiano PART coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità.
Quali rischi ?
Proprio sulla base delle perplessità riguardanti la possibile aderenza dei pazienti a schemi rigidamente prefissati di terapia e di interruzione della stessa, il nostro gruppo ha iniziato, insieme ad altri in Italia e nel mondo, a esaminare l’effetto delle interruzioni guidate dai linfociti T CD4+ in presenza di una carica plasmatica di HIV sia inferiore alle 50 copie/mL, sia superiore a tale valore. Il fatto che siano stati inclusi anche individui in fallimento virologico era legato alla difficoltà da parte nostra di iniziare una terapia antiretrovirale complessa, che comprendesse ad esempio un inibitore della proteasi rafforzato da ritonavir, in pazienti con una conta di linfociti T CD4+ ampiamente superiore a 500 cellule/L. Alcuni studi sono stati randomizzati (come il BASTA di Maggiolo et al.), altri prospettivi monocentrici (come quelli di Boschi et al. e di Tarwater et al) e multicentrici (come quello internazionale coordinato dal nostro gruppo). Tutte le indagini sono state concordi nel sottolineare la relativa sicurezza di questa condotta terapeutica, suffragata dall’assenza di eventi AIDS o comunque clinicamente significativi, se si eccettua il possibile sviluppo di una sindrome antiretrovirale acuta. Tale condizione clinica, come è noto, è causata dal sistema immunitario che risponde all’interruzione della terapia quasi si trovasse in presenza di un’infezione acuta. Quanto ciò possa risultare utile o meno nel corso di interruzioni plurime, rimane da valutare. Inoltre, riguardo alla relativa sicurezza, ci si riferisce unicamente agli eventi HIV-correlati; è opportuno, però, ricordare (anche ai pazienti), come le interruzioni terapeutiche siano seguite da un aumento della carica plasmatica di HIV, che determina una maggiore infettività dei soggetti e, quindi, una frequente possibilità di trasmissione sessuale. Altri effetti indesiderati descritti sono la ricomparsa della piastrinopenia, la ripresa dell’epatite B, il peggioramento di patologie dermatologiche quali la psoriasi e la rosacea. Un ulteriore possibile rischio, che andrà valutato e in merito al quale non esiste alcuna certezza, concerne lo sviluppo di resistenze legato alla diversa emivita plasmatica dei farmaci antiretrovirali. Nello studio BASTA, tutti i pazienti arruolati nel braccio interruzione al termine di questa riprendevano la medesima terapia e raggiungevano rapidamente una carica plasmatica di HIV inferiore a 50 copie/mL: pertanto, anche se non sono state esaminate le resistenze genotipiche, sembra che non ne siano insorte in misura tale da inficiare il successo virologico del trattamento. Al contrario, i dati presentati recentemente da Ruiz et al. hanno mostrato che in corso di interruzioni CD4+ guidate in 8 pazienti su 19 (42%) comparivano resistenze agli inibitori non nucleosidici della trascrittasi inversa, farmaci che in tale studio venivano interrotti contemporaneamente agli altri.
Quali domande ?
Il fattore predittivo del periodo più o meno lungo che i pazienti riescono a trascorrere in assenza di terapia è apparso il valore nadir dei linfociti T CD4+. Nel nostro studio, ad esempio, i pazienti che avevano presentato un livello nadir di linfociti T CD4+ pari a quello suggerito dalle attuali linee guida internazionali per l’inizio della terapia antiretrovirale, e cioè compreso tra 200 e 350 linfociti T CD4+/L, hanno potuto rimanere in assenza di terapia per un periodo mediano di 61 settimane. Inoltre, a differenza di altre, questa ricerca ha evidenziato, come fattore predittivo significativamente associato da un punto di vista statistico a una più prolungata interruzione, il ruolo di una carica plasmatica di HIV inferiore a 50 copie/mL, durante il trattamento, per un periodo superiore a 12 mesi. Tutti questi risultati, proprio perché concordi, se da una parte hanno rassicurato i clinici sulla relativa sicurezza della strategia di interruzione terapeutica guidata dal valore dei linfociti T CD4+, dall’altra hanno generato anche diversi interrogativi, di tipo sia immunologico, sia clinico. Infatti, il ruolo predominante del valore nadir dei linfociti T CD4+ ha fatto intravedere un livello immunologico in qualche modo non ricuperabile dalla terapia, anche se potente e prolungata. Come conseguenza, se tale situazione immunologica esiste, sembra essere giunto il momento per chiedersi se sia il caso o meno di iniziare la terapia antiretrovirale più precocemente, per poi eventualmente interromperla.
Non è per tutti…
Per quanto riguarda l’effetto sulla tossicità mitocondriale indotta da farmaci, abbiamo esaminato il contenuto di DNA mitocondriale prima dell’interruzione terapeutica e ogni 2 mesi dopo la stessa. Lo studio, effettuato su 30 pazienti, ha dimostrato che il contenuto di DNA mitocondriale per singola cellula aumenta progressivamente dal 6° mese dopo l’interruzione del trattamento. Questo dato ci fa ritornare al problema del momento di inizio della terapia, poiché per poter rimanere più di 6 mesi in assenza di terapia occorre avere un valore nadir di linfociti T CD4+ certamente superiore alle 200-250 cellule/μL. Considerando il fatto che circa la metà dei pazienti che iniziano ogni anno il trattamento antiretrovirale giunge alla nostra attenzione in una fase avanzata di malattia, se non in stato di AIDS conclamata, questa strategia di trattamento “intermittente” riguarderebbe comunque un numero limitato di individui.
Ritornando alle mode, esiste – a mio parere – il rischio che le interruzioni vengano sempre più in voga; i pazienti, in definitiva, potrebbero supporre che siano medici “buoni” quelli che interrompono le terapie e siano invece influenzati dagli interessi economici delle case farmaceutiche quelli che non lo fanno. Infatti, credo vada anche rispettato il parere di quei colleghi, che, in assenza di dati certi sulla sicurezza a lungo termine di una terapia che contempli periodi di sospensione e non avendo a disposizione strumenti per compiere studi immuno-virologici, decidono di non far correre alcun rischio ai pazienti, sia esso di progressione clinica o di possibile trasmissione dell’infezione.
Conclusioni
Le interruzioni terapeutiche CD4-guidate, se effettuate nell’ambito di studi clinici e biologici che richiedano uno stretto monitoraggio dei pazienti, possono incrementare le nostre conoscenze tanto in campo immunologico, quanto nell’ambito degli effetti collaterali. Tuttavia, non va dimenticato che la sospensione della terapia antiretrovirale può rappresentare un rischio non quantificabile a lungo termine; deve essere chiaro a tutti, medici e pazienti, che non tutti i soggetti possono interrompere la terapia antiretrovirale, poiché vanno rispettati i criteri emersi da tutti gli studi clinici, cioè una conta di linfociti T CD4+ all’interruzione superiore a 500 cellule/μL e un valore nadir superiore a 250 cellule/μL.