Non c’è ancora un accordo internazionale sulla soluzione del gravissimo problema del rifornimento di farmaci essenziali per gravi malattie epidemiche (anzitutto Aids, malaria, tubercolosi), ai paesi più poveri del pianeta. Ed ovviamente non bastano le pur meritorie iniziative di questo o quel paese sviluppato, di questa o quella casa produttrice, di donare partite di farmaci a questa o quella popolazione indigente. Alle radici della mancata soluzione c’è, in primo luogo, un confronto/scontro fra i grandi produttori internazionali di farmaci brevettati ed i governi dei paesi il cui prodotto interno, e il cui reddito pro capite, rendono impensabile l’acquisto in misura sufficiente ai bisogni di prodotti ai prezzi che il brevetto consente di fissare, onde remunerare gli ingentissimi investimenti per la ricerca-sviluppo. Tanto per dare l’idea, un nuovo efficace farmaco non è neppure «pensabile» se non si è in grado di stanziare – e «tenere fermi» per circa 10 anni, tra ricerche, sperimentazioni, autorizzazioni ecc. – almeno mille miliardi di vecchie lire. A dire il vero, tuttavia, il problema centrale non è dato dal prezzo che specificamente il brevetto consente di praticare sopra i livelli della concorrenza. Anche il normale prezzo di prodotti non brevettati praticato nei paesi avanzati in regime di concorrenza sarebbe comunque insostenibile per popolazioni che sopravvivono sotto la soglia della povertà. Il nodo più profondo dello scontro è un altro: mentre i paesi del terzo e quarto mondo premono per non riconoscere, e comunque privare di efficacia, nei loro mercati, i brevetti sui farmaci essenziali (in particolare, imponendo licenze obbligatorie a favore di produttori locali), le grandi case produttrici temono che, dalla perdita del controllo della produzione e della distribuzione, assicurato appunto dal brevetto, possa derivare un «traffico di ritorno», ossia un flusso di (ri)esportazione con conseguente «concorrenza sleale» gravemente frustrante la remunerazione degli investimenti. L’Unione Europea ha ora proposto (25 marzo 2003) un sistema di controllo alle frontiere della Comunità per garantire i produttori contro questo rischio rispetto ai 72 paesi più poveri. Ma si limita a chiedere in cambio l’adesione dei produttori a sconti di prezzo riferiti – attenzione! – ai livelli e/o ai margini di profitto praticati nei paesi «ricchi» dell’Ocse. Non basta, ovviamente. Occorre una soluzione razionale, che garantisca un atteggiamento «cooperativo» dei titolari dei brevetti (venendo quindi incontro a quella loro legittima preoccupazione), in modo tale da rispondere efficacemente, su scala mondiale, all’emergenza umanitaria. Una tale soluzione potrebbe basarsi su un «accordo», da negoziarsi in sedi internazionali, tra titolari dei brevetti e Paesi in via di sviluppo, in base al quale i primi si impegnano a fornire ai secondi i farmaci originali a prezzi bassissimi, proporzionati (non a quelli «occidentali», pur scontati, bensì) al Pil e al reddito medio pro capite dei pasi più poveri. Dal canto loro, i paesi poveri accettano di rispettare il brevetto «per tutto il resto», ossia per il diritto di controllare produzione e distribuzione (ovviamente a prezzi così calmierati). In tal modo, i produttori si garantirebbero molto più efficacemente contro il rischio di riesportazione, e manterrebbero altresì «la posizione» nei singoli paesi in via di sviluppo anche in vista della futura fuoriuscita di questi dalla povertà. Questa soluzione – che dovrebbe essere estesa ai farmaci per la cura di ulteriori gravi patologie – avrebbe il pregio aggiuntivo di esercitare sui produttori una fortissima moral persuasion sia a fornire (pur in confezioni diverse per forma, colore etc., ad agevolare il controllo contro la riesportazione sui mercati «agiati») prodotti qualitativamente identici a quelli venduti in Occidente, sia ad assicurare la professionalità e la efficacia della loro somministrazione: punti, entrambi, molto importanti per la cura di quelle patologie in quelle condizioni infrastrutturali.