Se ne e’ parlato al “5th International Workshop on Clinical Pharmacology of HIV Therapy” promosso dall’Istituto di Clinica delle Malattie infettive dell’Università Cattolica di Roma.‘Tailoring’, questa la parola d’ordine della terapia per l’infezione da HIV. Non si possono più somministrare terapie anti-HIV uguali per tutti, ma il tipo e le dosi dei farmaci antiretrovirali debbono essere “tarate” sulla singola persona con HIV/AIDS, considerando le variabilità individuali del paziente come la capacità di assorbimento dei farmaci, il sesso, il peso corporeo, l’eventuale co-infezione HIV-HCV. La terapia dell’AIDS si fa sempre più complessa ma il futuro impiego di test per determinare le concentrazioni dei farmaci nel sangue agevolerà il clinico che, secondo un’indagine conoscitiva condotta su 300 infettivologi italiani, considera suoi obiettivi principali proporre un regime terapeutico a lungo termine e che possa essere in grado di prevenire l’insorgenza di resistenze. I risultati di questa ricerca sono stati resi noti in occasione del “5th International Workshop on Clinical Pharmacology of HIV Therapy” promosso dall’Istituto di Clinica delle Malattie infettive dell’Università Cattolica di Roma, che ha visto la partecipazione di oltre 200 clinici, virologi e farmacologi europei e nordamericani.
“Lo scopo del workshop – spiega il prof. Roberto Cauda, direttore dell’Istituto Clinica delle Malattie Infettive dell’Università Cattolica – è di riportare i dati più recenti delle ricerche cliniche e di laboratorio sull’argomento e discutere a livello di massimi esperti mondiali le strategie per ridurre le tossicità e le interazioni sfavorevoli tra farmaci, nonché aumentare l’efficacia delle terapie a disposizione”. Ospitato quest’anno dall’Università Cattolica presso il suo Auditorium, il simposio internazionale raccoglie ormai da alcuni anni gli addetti ai lavori al massimo livello internazionale per discutere degli ultimi dati relativi alla farmacologia degli antiretrovirali.
La terapia antiretrovirale ha cambiato la storia naturale dell’AIDS cronicizzando la patologia. Ma i farmaci impiegati per bloccare l’HIV presentano importanti problemi di tollerabilità e tossicità nel lungo termine. “Fino ad oggi – ha detto il dott. Andrea De Luca, ricercatore presso l’Istituto di Clinica delle Malattie infettive della Cattolica – per queste terapie negli adulti si è utilizzato il criterio di ‘un dosaggio uguale per tutti’, senza prendere in considerazione diversità individuali legate a peso corporeo, sesso, capacità individuali di assorbire ed eliminare il farmaco”. Molte persone sieropositive, a causa della co-infezione con i virus dell’epatite, hanno un fegato meno funzionante ed eliminano i farmaci assunti con maggiore difficoltà rischiando così di raggiungere livelli ematici di farmaci antiretrovirali eccessivi, che causano effetti tossici maggiori. Inoltre, alcuni farmaci anti-HIV possono interagire tra di loro o con altri medicinali che il malato deve assumere per la cura di malattie concomitanti, con un conseguente aumento o diminuzione della quantità di farmaco attivo nel sangue. Talvolta le interazioni possono essere “sfruttate” in senso favorevole: riducendo l’eliminazione di un farmaco ad esempio, si possono ottenere livelli più elevati nel sangue e nelle cellule infettate dal virus e quindi ridurre il numero di compresse da assumere, o si può superare l’ostacolo costituito dall’HIV divenuto talvolta parzialmente resistente al farmaco stesso.
Adesione e gestione delle resistenze sono le problematiche percepite come le più complesse e difficili da gestire dal clinico: “sono in certa misura le due facce della stessa medaglia”, ha affermato il dott. De Luca commentando i risultati della ricerca condotta sugli infettivologi italiani che indicano le due questioni al top delle loro preoccupazioni di clinici, rispettivamente con il 40% e il 30,67% delle risposte alle interviste. Questi numeri confermano le percentuali delle risposte date dai clinici italiani quando hanno dovuto indicare gli obiettivi principali che hanno in mente quando devono scegliere la terapia antiretrovirale: il 42,03% indica il proporre un regime terapeutico efficace e a lungo termine, il 21, 01% un regime in grado di evitare l’insorgenza di resistenze. Non a caso il convegno iniziato oggi è stato preceduto da un seminario sull’interpretazione dei test di resistenza agli antiretrovirali co-patrocinato oltre che dall’Istituto di Clinica delle Malattie infettive della Cattolica, anche dalla Società Italiana di Virologia, dalla Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali e dall’Università di Siena. L’attacco all’infezione da HIV deve essere strategico e combinato, “deve cioè poter disporre di tutte le risorse che la tecnologia e la ricerca scientifica mettono a punto al fine di migliorare il management clinico del paziente: la possibilità di utilizzare data base in grado di definire un modello predittivo della risposta del paziente al trattamento sulla base dei risultati del test di resistenza genotipico è fondamentale”. E il progetto portato avanti da Maurizio Zazzi, professore associato dell’Università di Siena con il database ARCA – che raggruppa l’impegno di più università, Cattolica inclusa – è di assoluta utilità per il clinico così come per il paziente.
Ma il discorso della personalizzazione della terapia non può limitarsi alla questione della farmacoresistenza, deve essere approcciato anche attraverso gli strumenti messi a punto dagli studi di farmacocinetica. “Oggi risulta chiaro che non si possono più somministrare terapie anti-HIV uguali per tutti – ha proseguito De Luca – ma il tipo e le dosi dei farmaci antiretrovirali debbono essere “tarate” sul singolo individuo. Un contributo fondamentale a ciò verrà dato dai test per determinare le concentrazioni dei farmaci nel sangue: questi vanno ancora migliorati in termini di affidabilità e soprattutto interpretazione dei risultati perché possano essere utilizzati nella pratica clinica”.