La Sars e la paura della Sars. Due virus, uno biologico e l’altro «immateriale», nutrito di stili di vita, comportamenti, emozioni. Meccanismi che ci mostrano come si propagano le epidemie nel mondo globalizzato, sulla rotta del commercio e dei media. Ma anche come la percezione del rischio sia una costruzione sociale. Provoca meno vittime di quelle causate dalla malaria, un milione quest’anno; dall’Aids, quasi tre milioni e quasi tutti poveri; dall’infarto o dalla febbre dengue. Tuttavia la polmonite atipica viene vissuta anche in Europa e in Sudamerica come un pericolo tangibile, imminente e personale: ora, oggi, qui. Attenti. Ci sono due virus della Sars, non uno. Il primo è un coronavirus, costituito di un filamento singolo di Rna e appartenente alla famiglia virale che causa le nostre più banali influenze. È piuttosto pericoloso: l’infezione respiratoria (che attacca, pare, i tessuti fra gli alveoli dei polmoni rendendo difficile il passaggio nel sangue dell’ossigeno che respiriamo) causa nel 10% dei casi la necessità di ricoveri in terapia intensiva ed è potenzialmente mortale. Il secondo virus è immateriale: è fatto di idee, emozioni, parole. È un virus cognitivo, si è propagato molto più rapidamente del primo e ha colpito infinitamente più persone, di tutte le razze e culture, di ogni censo e nazione. Fa sì che le persone memorizzino la sigla Sars, abbiano una vaga idea di che malattia sia e quali siano i suoi sintomi. E collochino tale malattia, persino nei paesi in cui non è arrivata o non arriverà, nella propria «agenda» di chiacchiere, pensieri, preoccupazioni. Vediamo le due infezioni a confronto. Il primo virus, biologico, ci mostra ancora una volta il meccanismo stupefacente della propagazione delle epidemie nel mondo globalizzato: anziché a macchia d’olio, localmente, come nei secoli passati, e poi a ondate che seguivano le rotte commerciali e migratorie (coi ritmi dei mezzi di trasporto di un tempo), i contagi di oggi si propagano sul pianeta intero in tempi brevissimi, dell’ordine delle settimane o persino dei giorni. Come i flash delle macchine fotografiche in uno stadio durante un gol, focolai della malattia si accendono quasi simultaneamente in punti distanti del globo, seguendo i fili invisibili delle rotte aree più importanti. Kreuzberg, quartiere che i berlinesi hanno ribattezzato la «piccola Istanbul» per la presenza massiccia di immigrati turchi, è noto agli epidemiologi come porta di entrata orientale per diverse epidemie: giunta una nuova influenza in Turchia, una settimana dopo comparirà a Berlino. Se la virulenza di una malattia è tale da rendere il contagio rapido e altamente probabile, la sua progressione può divenire esponenziale, praticamente incontrollabile (cosa che, nel caso della Sars non sta avvenendo in Occidente, ma che l’Oms teme avvenga in Cina). La globalizzazione e la struttura reticolare di parte delle nostre strutture socioeconomiche fanno sì che gli strumenti matematici di cui gli epidemiologi devono dotarsi siano molto diversi da quelli di un tempo, piuttosto sofisticati e non troppo diversi da quelli di chi studia i sistemi di sicurezza informatica. Il secondo virus è meno drammatico ma altrettanto notevole. Suoi veicoli non sono l’Rna e le goccioline d’acqua nebulizzate, ma la parola e l’emozione. Anziché a cavallo degli aeroplani e delle correnti d’aria negli edifici, si propaga con la velocità prodigiosa delle agenzie di stampa. Anziché servirsi di hotel e mercati, aeroporti e ospedali, può saltare ogni barriera fisica e geografica, comparire ovunque ci sia un televisore, un quotidiano, una connessione internet. E, di lì, scivolare in ogni luogo di incontro della vita civile. Tale virus è dimostrazione di come la percezione del rischio sia una costruzione sociale e di quanto vedesse bene il sociologo Ulrick Beck, molti anni fa, nel preconizzare che la nostra era divenuta una «società del rischio». Vediamo gli effetti delle due infezioni a confronto. Quella virale presenta una crescita preoccupante. L’Oms fa bene a emettere note precauzionali allarmanti. Tuttavia, qui e ora, dal punto di vista epidemiologico, l’impatto della Sars è ridicolo sia in termini assoluti che relativi. Nel momento in cui scriviamo il numero totale di persone che sono state colpite dal morbo, in tutto il mondo da novembre a oggi, è di quasi seimila. In un solo giorno, da anni e per i prossimi anni, si ammalano e si ammaleranno di tubercolosi 20mila persone: 8 milioni di nuovi malati ogni anno. (Molte di più, una ogni secondo, sono quelle contagiate dal bacillo ma che non mostrano i sintomi della Tbc). I morti per Sars sono stati, da novembre a oggi, poco meno di 400. Le altre malattie contagiose respiratorie che esistono oggi sul pianeta provocano 4 milioni di morti l’anno. In un solo giorno, solo in Africa, solo fra i bambini, ci sono tremila morti per malaria (ogni anno la malaria uccide fra 1 e 3 milioni di persone). Anche in termini relativi, la contagiosità e il tasso di mortalità della Sars non sono cosa speciale. Almeno in questa fase, secondo l’Oms, il tasso di contagio della Sars è inferiore a quello di una normale influenza. E la mortalità è del 6% circa (potrebbe, dicono gli esperti, salire al 10% se la malattia avrà diffusione mondiale). Se avete la sfortuna di ammalarvi di questa polmonite atipica, le possibilità di guarire sono almeno 90 su 100, molte di più se non avete problemi di salute concomitanti (respiratori, cardiaci…). Sono all’incirca le chance di chi prende la forma emorragica della febbre dengue, contagiata dalle zanzare del genere Aedes in quasi tutti i paesi tropicali del mondo. Prendono la forma normale della dengue, secondo l’Oms, 50 milioni di persone l’anno, che non vengono isolate. Almeno mezzo milione finiscono in ospedale con la forma emorragica. La mortalità per dengue emorragica è bassa (attorno all’1-2%) in caso di intervento medico tempestivo e intensivo. Ben più alta (dal 5% sino al 20%) nel caso, più frequente, di un’assistenza medica insufficiente o negata. In Italia, possiamo fare un esperimento: chiediamo a un amico epidemiologo quante persone si sono ammalate di tubercolosi, negli ultimi mesi, a Milano. O sbirciamo sul sito dell’Oms per scoprire quante persone muoiono, ogni giorno, a Roma o Napoli, per aver respirato per anni le micropolveri PM10 contenute nell’aria. Compariamo con la Sars: anche se uccide con discreta efficienza e si sta propagando con tassi di crescita che potrebbero renderla vera epidemia globale, tale virus non è, e non diventerà, quello che era la Spagnola nel secolo scorso o che fu la peste nel Medioevo. Eppure ha già i suoi untori. In Brasile la polmonite atipica è, come in Europa, notizia di prima pagina. I telegiornali le dedicano servizi ogni giorno, incorniciati con un logo grafico dedicato. A São Paulo le autorità sanitarie rinchiudono in isolamento giornalisti e manager stranieri col raffreddore, ed emettono bollettini quotidiani sullo stato di una malattia che non c’è: i casi sospetti di Sars si contano sulle dita di una mano, i malati veri sono, forse, uno. I morti zero. In una città che, negli stessi mesi in cui cresceva l’epidemia cognitiva della Sars, ha avuto 10mila nuovi casi di dengue. Da noi, a Roma la gente comincia ad avere paura di far compere al mercato di piazza Vittorio (dove vive una nutrita comunità cinese). A Milano c’è chi ha paura di salire sull’autobus a fianco di una persona dagli occhi a mandorla. Chi ha paura non pensa che la Sars potrebbe divenire in Italia un’epidemia medica anziché mediatica. Chi ha paura, e i media sono attori importanti di tale costruzione sociale della paura, pensa che ora, oggi, qui, la Sars sia un pericolo tangibile. Siamo, dunque, ignoranti e irrazionali? No. Sarebbe stupido, e bigotto, chiudere la questione così. È ciò che fanno, con livore e frequenza discreti, alcuni esponenti del mondo scientifico italiano commentando la percezione che il pubblico ha del rischio legato ai cibi transgenici, all’inquinamento elettromagnetico o al nucleare. La realtà è che ci comportiamo così perché la mente umana è fatta, evolutivamente, per costruire in maniera differente, e usando facoltà differenti, il calcolo probabilistico di un rischio (quando questo sia calcolabile), la percezione di tale rischio e, infine, la sua accettabilità. Il calcolo di un rischio è fatto di numeri. La percezione del rischio è una costruzione sociale (e mediatica) fatta di numeri, cultura, immaginario, emozioni. L’accettabilità di un rischio è costruzione sociale (e mediatica) negoziata, ed è fatta di tutte le cose sopra, nonché di valori etici e valutazioni politiche. Come ci spiega l’antropologa Mary Douglas, la percezione dell’importanza di un rischio dipende anche dal valore che attribuiamo alle conseguenze di tale rischio, il quale si fonda su questioni politiche, estetiche e morali. Ecco perché in ogni cultura la malattia, oltre che stato fisiologico, è anche costruzione sociale. Lo abbiamo imparato nel caso della lebbra, della malattia mentale, dell’Aids e di cento altre patologie. La polmonite atipica che domina le prima pagine non solo nella ricca e ipocondriaca Europa, ma anche in Sud America è esempio splendido di tale costruzione sociale della malattia e della percezione di un rischio. Ed è esempio di un altro fatto notevole: se i virus biologici si propagano oggi alla stessa maniera delle merci e delle informazioni, così i desideri, i bisogni, gli stili di vita, il logo della Nike e le paure si contagiano come virus. Seguendo entrambi le rotte del commercio e dei media. Il sospetto che le idee si propaghino di testa in testa come una malattia non è nuovo. Nel 1764 il Pubblico Ministero di Ginevra mise al bando il Dizionario Filosofico di Voltaire: «è un veleno contagioso» – sancì. Negli ultimi anni molti studiosi hanno proposto spiegazioni per la propagazione epidemica delle mode e dei sogni di consumo, dei jingle musicali che ci ronzano in testa (anche quando non vogliamo) e delle leggende metropolitane. Richard Dawkins è un biologo reso celebre dalla teoria del «gene egoista»: non siamo noi che trasmettiamo ai discendenti i nostri geni, sono i geni che hanno progettato i nostri corpi come macchine che hanno il solo scopo di diffonderli. Dawkins ha proposto che, come le caratteristiche biologiche ereditarie vengono trasmesse tramite informazioni replicanti scritte sui geni, così anche la cultura si propaghi per mezzo di piccole unità di memoria replicanti, che ha chiamato «memi». Dalla sua idea è nata un’intera disciplina che oggi conta centinaia di adepti, libri e riviste: la «memetica». Non tutti sono d’accordo con lui. Dan Sperber, antropologo francese, ha mostrato come l’analogia con la genetica funzioni male: non è affatto dimostrato – dice – che la cultura si possa suddividere in elementi discreti, invariabili e replicanti, come i memi, perché ognuno di noi somma alle informazioni che riceve il proprio portato culturale, simbolico ed emotivo. In un ottimo libro (Il contagio delle idee, Feltrinelli) Sperber propone, come paradigma di riferimento per chi studia i processi cognitivi, l’epidemiologia anziché la genetica: dobbiamo costruire una epidemiologia delle credenze e dei bisogni sociali. Ad ogni modo, che sia un meme o un virus, ciò che abbiamo in mente sembra contagiarsi di cervello in cervello. Passando attraverso aeroporti e concerti rock, biblioteche e bar, telegiornali e telenovele. Una delle parole chiave è emozione: non è solo il fatto in sé che merita o meno di divenire contagioso, ma il suo connotato emotivo. Succede così, ad esempio, che negli Usa non c’è chi non conosca tutti i dettagli di un fatto che non è mai avvenuto: il mito della caduta di un disco volante alieno a Roswell, nel 1947, e la sua copertura per mezzo di un sinistro complotto delle forze governative. Ed è così, ad esempio che diviene facile vedere una collana aborigena al collo di un newyorkese, un indigeno Maya con il piercing, un bambino in una favela di Rio vestito secondo la moda del Bronx. È così, infine, che in questi giorni è verosimile che un contadino amazzonico analfabeta abbia sentito parlare della Sars ma non sappia di avere il morbo di Chagas, o non sappia neppure dell’esistenza di tale malattia, che lo ucciderà. La Sars, che era infezione virale degna di discreto allarme è divenuta virus cognitivo di grande successo, protagonista dell’arena mediatica. Anziché preoccuparci di ciò che ci uccide (le micropolveri, per esempio, o le malattie cardiovascolari) è più immediato, nella società del rischio, comprare a buon mercato ipocondrie eccitanti sul mercato mediatico globale. La Sars era perfetta per innescare tale meccanismo, per diversi motivi. Valentino Parlato e Ida Dominijanni (il manifesto 29 aprile) li hanno identificati nitidamente: siamo in un passaggio d’epoca che si caratterizza – spiega Parlato – per un calo della fiducia e delle speranze, per una crisi delle aspettative, una rinascita di insicurezze e paure millenariste. E Dominijanni individua alcuni elementi della Sars che paiono incastonarsi a perfezione nelle paure collettive di tale passaggio d’epoca: la Sars è morbo «sconosciuto, alieno, senza territorio e senza confini, poco sensibile a strumenti tradizionali di contrattacco […]: così è fatto il Nemico nell’era globale». La Sars è malattia eccitante, perché la medicina non la sa curare. È malattia mitica, perché si è trasformata da influenza banale a killer misterioso e forse lo ha fatto – già recitano alcune versioni della leggenda – tramite intervento sinistro di un Prometeo o di un dottor Frankenstein. E’ malattia «ingiusta», perché non manganella solo chi «se lo merita» violando canoni comportamentali o sociali. Viaggia in aereo e, oltre che colpire emigranti, contadini o poveri diavoli, crea scompiglio nelle fila asettiche di manager e avvocati, medici e congressisti. Così, con brivido eccitante, ci prepariamo a un’apocalisse guardando la tv in salotto, con la primavera alla finestra. Fuori dalla finestra un’apocalisse c’è già, ma un’apocalisse da poveri, da terza serata: i suoi cavalieri si chiamano diarrea (2 milioni di morti l’anno), Aids (quasi 3 milioni, quasi tutti poveri), malaria (1 milione quest’anno). Più appealing, più millenarista, più terrificante, la Sars per ora uccide con moderazione, ma sa colpire anche fra gente che ha una carta di credito in tasca o una guerra preventiva in calendario.